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L’Italia alla sfida dell’intelligenza artificiale, la prospettiva di Stefano da Empoli

Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com), think tank che ha fondato nel 2005, con sedi a Roma e Bruxelles, leader in Italia e in Europa sui temi del digitale e dell’innovazione, insegna Economia politica all’Università Roma Tre ed è membro del comitato scientifico di diverse istituzioni e iniziative e del gruppo di esperti sull’intelligenza artificiale costituito dal Ministero dello Sviluppo Economico con lo scopo di scrivere la Strategia italiana sull’AI. Fa inoltre parte della European AI Alliance, forum promosso dalla Commissione europea per discutere i profili di policy dell’AI. 

AWARE ha avuto il piacere di intervistare da Empoli, una conversazione sul saggio “Intelligenza Artificiale: ultima chiamata” (edito da Bocconi) che rappresenta il primo tentativo per comprendere quale spinta l’Intelligenza artificiale possa imprimere alla competitività nel nostro Paese.

Partendo dal titolo del suo libro, “ultima chiamata” sembra avere un’accezione pessimistica, è realmente così o c’è dell’altro?

Questo titolo dà il senso di urgenza verso una trasformazione tecnologica che ogni Paese richiede, ma che nel caso italiano è ancor più impellente: da un lato, in positivo, perché pur non essendo la seconda economia europea, abbiamo la seconda manifattura esportatrice, dall’altro, in negativo, vista la scarsa competitività all’estero degli altri settori che però grazie all’Intelligenza artificiale potremmo migliorare.

Le piccole e medie imprese sono il punto di forza della nostra economia. È ancora valido questo modello in un mondo in così continua evoluzione?

Ho cercato di descrivere quella che è, a mio avviso, una caratteristica positiva del sistema italiano nonostante tutti i fattori di scarsa competitività.

Questo sistema è stato molto resiliente e si è saputo evolvere. Ho descritto varie fasi, a partire dalla ricostruzione dopo la fine della Seconda guerra mondiale, attraverso l’espansione degli anni ‘70 e ‘80, fino alla terza trasformazione con la globalizzazione e digitalizzazione e l’ingresso della Cina sul mercato. Soprattutto nell’ultima fase c’è stata una selezione molto forte delle imprese (molte non ce l’hanno fatta) e, nonostante le previsioni negative, il sistema italiano non è crollato, anzi, anche se il fatturato e il valore aggiunto complessivi della manifattura sono diminuiti, c’è tutta una fascia di imprese che ha continuato ad esportare e a farlo più di prima. 

In questo senso il modello distrettuale si è trasformato, non è più al centro come negli anni ’70 e ’80 e non si basa più su distretti come un tempo ma su diverse realtà produttive.  Il modello distrettuale fondato su innovazioni incrementali in settori tradizionali, da una quindicina di anni a questa parte, ha superato l’ottica dei distretti industriali, con veri e propri distretti tecnologici.

Il fattore “qualità”, in settori quali quello manifatturiero e dell’artigianato, può considerarsi come la chiave di lettura di questa “resilienza”?

Intelligenza Artificiale: Ultima chiamata. Il Sistema Italia alla prova del futuro

Tra le caratteristiche base, secondo me, una di quelle che ricorre di più è la capacità di dialogare con i propri fornitori, con i propri clienti, siano essi consumatori finali o industriali. Questo complesso rapporto di dialogo con le altre parti della filiera e la capacità poi di tener conto dei feedback ricevuti ha determinato uno spostamento verso le esigenze delle altre parti della filiera stessa. Un fattore che ritorna con l’IA che permette di sistematizzare e rafforzare questo elemento su cui si innestano le qualità che non possono essere sostituite dalla stessa Intelligenza artificiale, almeno per il futuro prossimo, come empatia e capacità di relazionarsi con gli altri.



Dal machine breaking di Ned Ludd al machine learning e deep learning di oggi, cosa è cambiato e come si può orientare in senso positivo questa rivoluzione nel mondo del lavoro?

Un tema che evidentemente suscita grandi dibattiti. Da economista credo che un sistema più efficiente, dove si verifica un determinato progresso, fa sì che al venir meno di alcune funzioni lavorative nascano altre mansioni, non necessariamente nello stesso ambito in cui sono scomparsi determinati mestieri. È altamente probabile la comparsa di nuove professioni che ad oggi non conosciamo e che porranno questioni di informazione e preparazione.

In questo senso quale può essere il ruolo dell’Europa anche con la previsione di un Istituto per l’Intelligenza artificiale? E come il Vecchio Continente deve porsi rispetto a Usa e Cina?

Il Regno Unito è il vero traino europeo ma a carattere locale. Gode al suo interno di aziende e start-up tra le più importanti, centri di ricerca presso le università e l’Alan Turing Institute. E’ opportuno che dopo la Brexit l’Europa si impegni a mantenere degli stretti legami con il Regno Unito, nell’interesse di entrambi.

Rispetto alla Cina e agli Stati Uniti, agevolati dai mercati unici e dall’alto numero della popolazione e dal fatto che stanno investendo molte risorse, l’Europa ha grandi difficoltà, con mercati ancora spezzettati tra di loro, senza grandi player digitali e difficoltà rispetto alle potenzialità di capitale umano che invece potrebbe avere. Israele è il secondo grande campione nell’area europea-mediterranea.

Se l’Europa vuol fare davvero sul serio deve cercare di concretizzare l’Istituto Europeo per l’Intelligenza artificiale percorrendo due strade differenti: top-down creare effettivamente un centro fisico come il CERN nel campo della fisica nucleare, oppure ipotizzando un centro più limitato che però sia in grado di coordinare strutture periferiche con il fine di collaborare e di dividersi gli ambiti di eccellenza.  Il punto è sempre quello: il raggiungimento dell’eccellenza è possibile solo tramite l’investimento di molte risorse e tecnologie e il lavoro di un gran numero di ricercatori. 

Questa ricetta sarebbe molto efficace a livello europeo e ancor più in Italia, dove purtroppo si ha la tendenza a frammentare in mille rivoli le risorse senza essere in grado di coordinare.



L’importanza del progetto formativo Industry 4.0 di Confindustria. Le digital innovation hub come ponte tra impresa, ricerca e finanza, ma quanto è importante l’elemento dell’informazione?

Sono progetti complementari rispetto ai concetti appena descritti. Quando parliamo di digital innovation hub e in generale di industria 4.0 non bisogna solo guardare alle élite delle imprese che hanno la leadership dello sviluppo degli algoritmi, di tool e di IA, ma è necessario – e occorre ed è molto importante che lo faccia un’associazione come Confidustria – che l’adozione riguardi tutte le imprese, non solo quella delle élite. 

Il ruolo delle digital innovation hub dovrebbe essere proprio quello di favorire questo processo di transizione, assistendo il mondo delle imprese, in particolare le PMI. 

Per competere a livello mondiale avremo necessariamente bisogno di condizioni minime per erogare servizi nei confronti delle imprese.

La classe dirigente italiana è realmente in grado di accompagnare il processo di trasformazione produttivo e sociale e ridurre, parallelamente, il fenomeno del brain drain? 

Il problema della classe politica è sempre lo stesso e non sono sicuro che ci stiamo avviando verso un percorso virtuoso, cioè quello di un’ottica a medio e lungo termine.  Sarei forse moderatamente ottimista a riguardo di alcune regioni, come Lombardia e Emilia-Romagna che si stanno muovendo bene e per tempo in questo settore. 

Sicuramente però il livello regionale non basta da solo, occorre un centro direzionale nazionale che tenga conto delle aree che non possiedono un background prolifico che possa permettere loro di esprimersi in maniera positiva.  Nell’ambito dell’Industria 4.0 spero ci possa essere più continuità oltre alle digital innovation hub o ai centri di competenza che sono a metà strada tra pubblico e privato, sotto l’impulso del Ministero dello Sviluppo economico.

Nei singoli in realtà c’è sensibilità, il tema è capire se la cornice politica complessiva possa permettere a queste buone intenzioni di esprimersi in politiche adeguate e coerenti nel tempo. Al momento non sembra così realistico in Italia, ma soltanto facendo questo salto, potremo dire di aver imboccato la strada giusta.

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