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ATAC, una ripartenza tra digitalizzazione e smart working: parola al Dott. Cingolani

Per AWARE è stato un grandissimo onore intervistare un professionista del calibro del Dottor Cingolani con il quale abbiamo discusso della situazione vissuta da ATAC S.p.A. durante e post Covid19 e affrontato temi come lo smart working e il grande passo in avanti fatto dalla digitalizzazione in questi mesi di reclusione.

Corrado Cingolani – HR Manager, certificato Aidp/RINA. Professionista appassionato delle Relazioni Industriali e delle Risorse Umane ha ricoperto varie posizioni organizzative, con crescente responsabilità, in contesti industriali/servizi, sia nazionali che multinazionali. In qualità di Responsabile Gestione Risorse Umane, Relazioni Industriali e Normativa, ha gestito processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale. È componente del Direttivo AIDP Lazio e referente per la Certificazione delle Competenze HR. Attualmente Responsabile Relazioni Sindacali in Atac S.p.A., svolge attività di docenza presso ISPER FORmazione, Alma Laboris Business School, oltre ad essere consulente nel progetto “Lavoro agile per il futuro delle PA”.

In tema sicurezza e salute del dipendente sul posto del lavoro, l’azienda ATAC come si è approcciata e ha reagito al Covid19? E inoltre, come è stata gestita la situazione al rientro? Ci sono state delle nuove procedure o nuovi DPI per tutelare la salute e la sicurezza dei dipendenti?

Come azienda ATAC, (ricordiamo ha 11 mila dipendenti) con un impatto enorme sull’utenza romana, la nostra azione ha avuto 2 aspetti: da una parte l’organizzazione dei dipendenti da gestire durante il Covid19 partendo da un’analisi delle norme da applicare. Abbiamo così deciso di partire direttamente dal contenuto dei decreti, affiancando un’efficace comunicazione interna ed esterna, anche tramite più comunicati giornalieri: ovvero Disposizioni Gestionali e/o Comunicati al Personale, per mantenere i contatti in modo formale, tramite l’intranet, con i dipendenti tutte le informazioni aziendali. In questo caso la tecnologia ci è stata di aiuto anche perché lavoriamo con tanti dipendenti, sparsi su tutto il territorio del comune di Roma Capitale e che provengono da tutta la regione Lazio e oltre. 

L’altro aspetto che per noi ha rappresentato un’ulteriore difficoltà da superare riguarda l’utenza, dove in primis abbiamo lavorato sul distanziamento delle persone, con particolare attenzione, soprattutto, negli orari di punta (inizio mattinata in particolare) in cui l’utenza era rappresentata dalle sole persone che erano obbligate a spostarsi per andare a lavorare (ambito sanitario per esempio).

Ritornando alla gestione del personale, per la tutela della salute e la sicurezza del personale, e vista la sospensione o riduzione di specifiche attività operative, abbiamo dovuto collocare in “ferie di ufficio” i dipendenti interessati. Inoltre, per il personale che poteva esimersi dal lavorare nella sede di appartenenza abbiamo attivato un’operazione di “tutti a casa”. Questo ha significato partire dall’oggi al domani con più o meno 1.200 dipendenti in smart working. Passati i primi giorni, è stato necessario attivare gli ammortizzatori sociali messi a disposizione  per lo specifico momento emergenziale “Covid-19” presentando domanda di accesso all’assegno ordinario del Fondo bilaterale di categoria (una specifica Cassa integrazione Ordinaria, come siamo abituati a sentirla chiamare nel mondo del lavoro). Pertanto, a rotazione, quasi 4000 dipendenti hanno avuto riduzione di orario di lavoro, da un minimo del 20% fino alla totale sospensione dell’attività lavorativa per 9 settimane, terminata lo scorso 23 maggio. La difficoltà nell’avviare tali attività nel momento di più alto rischio, è stata rappresentata dal forte impatto, negativo, sulle persone e dalla repentinità con cui sono state effettuate seppur inedite.

Sui dispositivi c’è stata un vero e proprio braccio di ferro. Fino alla fase 1 è stata prevista la mascherina solo per quelle figure che, nel loro ambito lavorativo, avevano difficoltà nel rispettare le norme sulla distanza di sicurezza. Pertanto, i nostri autisti, macchinisti, sono stati forniti del loro kit e nel loro caso la mascherina doveva essere indossata soltanto quando uscivano dalla loro postazione di guida.

Successivamente nella fase 2 le normative per il trasporto hanno ampliato anche al mondo del trasporto l’utilizzo della mascherina, per maggior prevenzione. Quindi, seppur con molte difficoltà, abbiamo provveduto all’acquisto di mascherine per far in modo che ogni dipendente avesse almeno un ricambio per turno. Per ultimo, abbiamo intensificato l’attività di sanificazione, che ci ha sicuramente comportato molti oneri anche se azione necessaria e doverosa.   
Al di là di tutto, ci auguriamo di prendere quanto di buono abbiamo appreso e di farlo diventare prassi strutturale e di farne tesoro per il futuro. 

Si parla sempre di innovazioni, andando controcorrente le chiedo: quali sono e quali saranno invece i punti fermi dell’azienda ATAC? Di cosa non si potrà fare a meno e da cosa si ripartirà?

Necessariamente un’azienda di 11 mila persone deve ripartire dalle persone stesse. In un’azienda che dopo dieci anni da una fusione societaria tra le tre aziende che, nel comune di Roma, erano quelle che offrivano il trasporto pubblico (Atac, Trambus, Metro), è ancora poco sentito il senso di appartenenza, per questo motivo continueremo a lavorare costantemente sulla comunicazione al fine di avere un dialogo aperto e costante. Inoltre, dovremmo ripartire indubbiamente da un nuovo piano industriale. Dobbiamo capire dove siamo. È pur vero che non ci siamo mai fermati, quindi non sarebbe totalmente corretto dire che dobbiamo ripartire, diciamo che in questi mesi ci siamo difesi e ora, forse, è arrivato il momento di proporre qualche strategia di rilancio. 

Tra gli obiettivi che ha raggiunto, mi ha colpito in particolare il raggiungimento della riduzione di assenteismo in azienda (ATAC) pari al -25%. Questo rappresenta un numero importante che probabilmente agli occhi di chi non conosce bene le dinamiche interne all’azienda può sembrare irrisorio, ma in realtà è un risultato che apporta dei benefici enormi sotto tanti punti di vista. Come e in quanto tempo è riuscito a raggiungere questo risultato?

Innanzitutto, stiamo parlando di un processo iniziato qualche anno fa e potenziato da un piano di mantenimento per non vanificare quanto di buono è stato fatto. Ci trovavamo in una situazione di carenza manageriale e non si riusciva a comprendere quali erano le leve gestionali più corrette per far sì che ci fosse una presenza maggiore. La nostra azienda, sugli 11 mila dipendenti complessivi, ha circa 6 mila autisti e quindi è vero che sono all’interno del mezzo e della loro cabina, ma sono lì tutto l’anno e in qualunque condizione metereologica; inoltre, abbiamo 500-600 colleghi che sono fisicamente per le strade di Roma e si occupano della verifica dei titoli di viaggio o delle verifiche della soste tariffaria (strisce blu). Quindi gran parte del nostro personale è in sedi meno protette.

Tramite l’analisi dei dati arrivammo ad un punto in cui probabilmente la situazione era eccedente, anche con tutte queste considerazioni. Per questo, innanzitutto, abbiamo fatto un benchmark su quello che è il nostro mondo, comparando ciò che succedeva nelle altre città d’Italia e ho preso in considerazione i colleghi di Milano e Napoli.

In questa occasione che è iniziata una grande campagna di sensibilizzazione sul tema. Abbiamo analizzato le figure professionali con il più alto indice di assenza e, nei casi più eclatanti, abbiamo iniziato a fare dei colloqui gestionali con un approccio standard per analizzare con precisione i dati e comprendere quale erano le criticità. In alcuni casi erano legate a patologie, in altri abbiamo sottolineato ai colleghi che l’assenteismo non era lo strumento opportuno per risolvere problemi o criticità personali o di disagio nei confronti del lavoro.

In altri casi, abbiamo dovuto utilizzare la mano forte (quello che ci permette il regolamento disciplinare) perché, come sempre, c’è chi ha delle motivazioni importanti e chi invece se ne approfitta. Comunque si contano sulle dita della mano i casi in cui abbiamo ricorso al licenziamento.

Si occupa del tema dello smart working da tanto tempo e in questo periodo è uno tra le tematiche di maggior tendenza, vista la situazione che stiamo vivendo. Cosa ne pensa? Lo smart working può essere applicato ad ogni realtà? C’è stato solo un problema di organizzazione, oppure alcune realtà non potranno mai adottare questo sistema se non provvedono ad un ripensamento strutturale e logistico interno alle proprie aziende? 

Io ho iniziato ad interessarmi di smart working per puro piacere molti anni fa. Quando lavoravo in un’azienda metalmeccanica – inizi anni ‘90 e stavamo acquistando un pacchetto IBM (software gestionale di paghe) e il Product Manager che stava seguendo il nostro acquisto mi diceva che non andava mai nella sede milanese dove avevano gli uffici. Andava forse una volta al mese e viveva la sua vita lavorativa tra casa e i vari clienti. 

Questo modo di lavorare fuori le mura dell’azienda tanto care alla cultura lavorativa italiana ha da sempre coinvolto tanti tipi di lavoratori. Sono d’accordo che la definizione corretta oggi è quella di remote working o addirittura home working, perché questo non è sicuramente smart working.
La norma ha definito lo smart working un lavoro agile anche se dal punto di vista letterale chi conosce l’inglese sa benissimo che non sono sinonimi.

Oggi le norme di emergenza (causa Covid19) lo hanno definito come misura e strumento per tutelare la sicurezza e salute del lavoratore. Essendo stato uno strumento attuato in un momento del genere, va sicuramente strutturato meglio rispetto all’utilizzo che se ne è fatto fino ad oggi. Quindi si, sono tante le aziende che sono impreparate, in quanto parlare di smart working significa parlare di cultura aziendale, di una nuova leadership, di una libertà di lavorare dove e quando si vuole. C’è bisogno di responsabilizzare le persone agli obiettivi individuali: questo porta sicuramente un valore aggiunto all’obiettivo aziendale. Molte aziende in Italia non sono pronte.

Chi ha fatto qualcosa sta sicuramente un passo avanti, chi (come noi) aveva un progetto nel cassetto ma aveva paura di applicarlo ora questi “freni inibitori” sono stati annullati e il processo di attuazione è stato accelerato, anche se bisogna capire come ridefinirlo e applicarlo al meglio. Ciò che tengo a sottolineare è che questa situazione ci ha permesso di sottolineare la grandissima differenza tra telelavoro e smart working: il telelavoro lo fa il dipendente, lo smart working lo fa l’organizzazione e l’intera società che deve organizzarsi per lavorare nel modo più efficace possibile.

Attuare un piano efficiente di smart working fa in modo che ci sia un ritorno positivo sia per quanto riguarda i costi, ma ancor più importante è la motivazione e l’engagement dei dipendenti.

Secondo lei quanto è stato importante il passo che è stato fatto in avanti durante questa quarantena sul tema digitalizzazione, grazie al quale si potrà forse conciliare lavoro in team e smart working?

La tecnologia non deve essere utilizzata solo per svolgere le proprie attività, ovvero quelle che si possono svolgere altresì in ufficio, bensì va utilizzata anche per mantenere quelle relazioni che normalmente si coltivano di persona.

Il web stesso è una rete, quindi più che cambiare il contenuto del lavoro, bisognerebbe cambiare il modo di relazionarsi. Tutte le nostre competenze (hard o soft) devono essere comunque sviluppate ma contemporaneamente c’è la necessità di cambiare la modalità di esercizio delle stesse. La tanto acclamata leadership muterà molto probabilmente, perché se prima si poteva essere costantemente presenti, impartire direttive e controllare l’esecuzione di persona, oggi questo non è più possibile farlo. Il leader dovrà essere capace di determinare, nei propri collaboratori o colleghi, la necessità di rendersi più responsabili e quindi fare quel passo in più senza aver paura di sbagliare.

Se noi rimaniamo nel retaggio che quello che si faceva in un ufficio lo si può fare anche in smart working, partiamo con il piede sbagliato. Per rispondere alla domanda sulla questione lavorare in team,  dobbiamo far sì che le dinamiche già in essere in azienda, ovvero lavorare in team su progetti anche trasversali rispetto la propria struttura organizzativa di appartenenza, anche se non sarà possibile farlo sempre in presenza, sarà comunque possibile, perché con un concetto organizzativo di smart working non ci si potrà più affacciare nell’ufficio del collega, ma si può fare la stessa cosa in modo diverso e magari collaborare in team con colleghi di altre sedi. Anche nel caso del team è la modalità che cambia.

Chiudo con una domanda personale che sto cercando di fare a tutte le personalità che ho avuto e avrò l’opportunità di intervistare: un vero Leader si vede nei momenti di difficoltà. Non voglio quindi chiederle qual è stato il momento più felice della sua lunghissima carriera, ma quale invece è stato il più difficile, se c’è stato un fallimento che lo ha segnato in particolare e come è riuscito ad affrontare e ribaltare questo momento negativo. 

Oramai sembra sdoganato il tabù di parlare dei propri fallimenti e anche molte personalità ne parlano. Nella professione, come nella vita, vengono fatti tanti errori. Io per esempio ho lavorato nel mondo dei tabacchi e mi piace ricordare come le sigarette Marlboro rosse nascono per un errore, un errore di marketing. Infatti, le Marlboro rosse sono state ideate con l’obiettivo di farsi largo tra le consumatrici donne, poi però essendo sigarette molto forti sono diventate le sigarette più consumate dai fumatori incalliti. Come cultura noi non siamo portati a raccontare i nostri insuccessi, difficile che raccontiamo cosa abbiamo sbagliato.

Io, ancor prima di essere un manager, sono stato uno sportivo e un giocatore di basket e di conseguenza ho conosciuto la sconfitta, in quanto fa parte del gioco. Mi piace citare ciò che ha detto Michael Jordan in un’intervista: “…Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”.
Una delle esperienze più forti per me a livello professionale è quando la Giunta di Roma, da un momento all’altro, ha definito che in luogo della privatizzazione delle tre aziende, ci sarebbe stata una fusione in un’unica grande azienda e contestualmente la normativa stava virando verso una “pubblicizzazione” delle società stesse. Quindi ci siamo trovati, io come molti altri, a vederci cadere addosso tutti i progetti sui quali eravamo stati ingaggiati, perché noi stavamo lavorando verso un’altra direzione. Questa è stata una grande sconfitta, non tanto perché stavamo lavorando male, ma è stata una sconfitta personale perché poi uno si chiede “come mai non ho capito prima come stavano andando le cose e tutto il mercato del trasporto?”.

Potevo essere più lungimirante. Ma alla fine di tutto, la cosa più importante è che dalla sconfitta uno ne esca con una presa di coscienza, comprendere i perché. 

Come ci si alza? Oramai sui social abbiamo tutte le frasi più bella del mondo che ci propongono le migliori soluzioni del mondo. Io nella mia esperienza ho potuto vedere come la consapevolezza e l’accettazione dell’errore,  portano a lavorare con un impegno maggiore, grande forza di volontà e grande determinazione.  Perciò bisogna continuamente studiare e prepararsi al meglio per la prossima sfida, perché non basta capire gli errori ma è fondamentale prepararsi per non ripeterli. 

Come si dice nella pallacanestro: mi devo preparare per essere pronto per la prossima palla a due.

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