Sostenibilità

Transizione e disuguaglianze: gli ultimi resteranno ultimi?

Mentre la pandemia sta rallentando in molti paesi, non si placa la discussione intorno al cambiamento necessario che deve essere intrapreso nel percorso di uscita dalla crisi sanitaria ed economica. La richiesta principale mossa alle istituzioni, italiane ed europee, dai vari manifesti sottoscritti da organizzazioni, imprese, intellettuali, economisti, e così via, ruota intorno alla transizione verde, considerata una possibile soluzione alla crisi economica globale che stiamo affrontando.

Una transizione a dir poco indispensabile per le sorti future del nostro pianeta che in realtà non si è mai concretizzata realmente, come dimostrato anche dai dati elaborati nel grafico accanto. Nel 2015, con la ratifica dell’Accordo di Parigi sono stati vincolati legalmente i paesi che hanno presentato i rispettivi Nationally determined contributions (NDCs), ovvero i contributi previsti a livello nazionale per la riduzione delle emissioni di CO2 (ad oggi hanno inviato i propri NDCs 186 paesi, mentre quest’anno è attesa la presentazione di nuovi e rinforzati contributi). La speranza è che i documenti appena citati portino ad un miglioramento nelle proiezioni previste rispetto alle promesse ed alle politiche realmente attuate, al fine di rispettare gli impegni assunti attraverso la ratifica dell’Accordo di Parigi.

Si consideri che, per la realizzazione della transizione verso un’economia neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050, saranno necessari massicci investimenti. Ad esempio, il “solo” raggiungimento di un obiettivo intermedio di riduzione dei gas serra del 40% entro il 2030 richiederebbe 260 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi all’anno [1], una cifra, come ho già scritto al riguardo, ben lontana da quella stanziata dal Green Deal europeo.

Come sottolineato, per la sola Europa, le risorse economiche necessarie per realizzare la transizione saranno notevoli, ma come sarà coniugato questo grande dispendio di risorse con una criticità quale l’aumento delle disuguaglianze? 

Quando si tratta l’argomento della transizione, della sostenibilità, dell’uscita dal carbone, spesso si richiamano anche le condizioni delle fasce più deboli che sono un pesante ed inconcepibile elemento di connessione tra tutti i popoli. Per questa ragione, ad esempio, l’Unione Europea ha previsto il Just Transition Mechanism, mentre le Nazioni Unite nella loro agenda 2030 “Trasforming Our World” hanno legato i due elementi all’interno dell’SDG numero 10 ovvero “Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni”.

Povertà, disuguaglianze, ed altre piaghe che stavano registrando un’imponente diminuzione da diversi anni, con risultati positivi mai visti nella storia dell’umanità, purtroppo, come evidenziato da The Economist (23 Maggio 2020),  a causa della contingente crisi, torneranno ad ampliarsi, facendoci sprofondare ai livelli di svariati anni fa. Dunque, sorgono i dubbi sul ruolo che riveste la Transizione nella lotta alla disuguaglianza, se la prima possa acuire la seconda o rappresentare un sollievo, una soluzione ad una delle battaglie più complicate che le nazioni sono moralmente obbligate ad affrontare insieme.

La transizione socio-ecologica e le diverse priorità

Affrontare la questione relativa al rapporto tra transizione e disuguaglianza non è semplice e scontata, i fattori in gioco sono molteplici, e ciò ovviamente comporta un’elevata difficoltà, ad esempio, nella predisposizione di politiche per spingere entrambe verso la stessa direzione. Si prenda come esempio il “Just transition Mechanism”: meccanismo per una transizione giusta, e, aggiungerei, equa, è stato predisposto chiaramente per ottenere il risultato di evitare che qualcuno possa “restare indietro” durante il processo di transizione. Il meccanismo prevede lo stanziamento di 100 miliardi di euro a favore delle regioni maggiormente colpite dalle trasformazioni. È dunque chiaro che la Commissione Europea ha ben a mente i rischi relativi alla forte possibilità di creare un divario sempre più ampio tra ricchi e poveri conseguente la grande quantità di risorse stanziate, in questo caso, a realizzare la transizione (mille miliardi previsti dal Green Deal).

Il legame tra disuguaglianze e transizione si trova a livello internazionale nell’SDG numero 10 dell’Agenda 2030 dell’ONU, ovvero “Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni”. A tal proposito si evidenzia come il cambiamento climatico, motivo per il quale non possiamo prescindere dalla transizione, ha un volto duplice quando viene posto vicino la questione delle disuguaglianze:

1. Il cambiamento climatico incrementa le disuguaglianze e la povertà. Molti dei paesi in via di sviluppo producono il 30% del loro PIL attraverso l’attività agricola, contestualmente però questa è la più vulnerabile agli effetti di un aumento considerevole delle temperature, con il conseguente danno sull’economia di nazioni già estremamente fragili. Inoltre, le azioni di mitigazione e di adattamento al cambiamento climatico, come abbiamo visto richiedono ingenti quantità di denaro, possono influire sui redditi e sulle opportunità delle diverse fasce sociali, soprattutto di quelle che si trovano in situazioni di vulnerabilità.

2. L’ineguaglianza comporta un aumento nella richiesta di crescita economica che nelle prime fasi influisce in maniera estremamente negativa sull’ambiente. In aggiunta a questo viene sottolineato in letteratura che quanto più la creazione di ricchezza di un Paese si concentra nelle mani di un numero ristretto di persone tanto più il resto della popolazione dovrà compensare questa concentrazione con un eccessivo sviluppo economico potenzialmente distruttivo dal punto di vista ambientale. Inoltre, l’aumento del divario in reddito e potere tra gli abitanti dello stesso paese, o tra le popolazioni dei diversi paesi, la distanza tra chi inquina e chi paga si allarga e diventa più facile per i ricchi – siano essi individui o paesi – trasferire alle categorie più povere i danni ambientali legati all’attività economica [2]. 

Come evidenziano questi due punti i paesi in via di sviluppo sono quelli che soffrono e soffriranno di più gli effetti della mancata (o eccessivamente lenta) transizione in grado di includere tutti nel processo.

La giustizia sociale, dunque, non è appannaggio esclusivo dell’Unione Europea, che di giustizia sociale e riduzione delle ineguaglianze ha sicuramente bisogno, ma non tanto quanto altri paesi del mondo vessati da condizioni estremamente gravi, molti dei quali appartenenti al  continente africano, come mostra il grafico. Questi paesi e quindi  i loro popoli chiedono di non essere dimenticati durante la transizione, e di non veder aumentare le immense differenze in termini di reddito, scolarizzazione, aspettativa di vita, con gli altri paesi, quelli più ricchi, come i paesi membri dell’Unione Europea.

Nei paesi in via di sviluppo i problemi relativi all’inquinamento, al riscaldamento climatico, all’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali attecchiscono relativamente poco come interesse primario per le persone. Purtroppo la questione ambientale, e quindi conseguentemente il tema della salute, è un tema al centro dell’agenda politica di quelle nazioni nelle quali le disuguaglianze sono più ridotte o dove i poveri non sono tanto poveri quanto quelli della Repubblica Centrafricana. Questa relazione tra livello di reddito pro capite ed attenzione verso il degrado ambientale è stata largamente studiata da diversi autori; uno dei risultati più sorprendenti è stata l’elaborazione della cosiddetta “Environmental Kuznets Curve” (EKC) (Curva di Kuznets Ambientale), la quale evidenzia come lo sviluppo economico porta inizialmente ad un deterioramento dell’ambiente, ma dopo un certo livello di crescita, individuato a diversi livelli di reddito pro capite a seconda dell’inquinante e della zona geografica, una nazione inizia a migliorare il suo rapporto con l’ambiente e i livelli di degrado ambientale si riducono [3].

Questa curva, non esente da critiche, rappresenta graficamente una regola valida anche nella letteratura psicologica: la piramide dei bisogni di Maslow [4],  che rappresenta l’ordine in cui l’essere umano soddisfa i propri bisogni, prima quelli fisiologici, poi quelli di sicurezza, di appartenenza, di stima e infine di autorealizzazione. Questo sta a significare che quasi un miliardo di persone, le quali oggi non sono in grado di soddisfare i bisogni alla base della piramide, non miglioreranno, nel breve periodo, il loro rapporto con l’ambiente e i livelli di degrado ambientale, innestando il dubbio della sostenibilità come affare esclusivo per ricchi.

Possibili impatti delle politiche per la transizione

Realizzare la transizione verde a livello economico richiede ingenti risorse, ma esistono ulteriori implicazioni ed effetti negativi che gravano sulle fasce di popolazione più svantaggiate. Infatti, consideriamo uno dei punti chiave della transizione verso la sostenibilità, ovvero la dematerializzazione dell’economia, attuata attraverso la digitalizzazione: l’effetto è quello di ridurre l’attività produttiva di  quei prodotti che possono essere offerti sotto forma di  servizi (es. Car sharing), la conseguenza quindi è la “deindustrializzazione”. Ridurre l’attività industriale di un paese sviluppato, con un settore dei servizi forte, competitivo e in crescita, può essere fatto con le dovute precauzioni, e in parte sta già avvenendo. Tuttavia, eseguire la stessa operazione in paesi in via di sviluppo il cui settore industriale non è del tutto maturo, può avere effetti drammatici.

La deindustrializzazione nei paesi sviluppati è spesso oggetto di critiche per la possibile perdita di posti di lavoro, riduzione nella crescita economica, aumento delle disuguaglianze, ecc., ma queste paure sono inevitabilmente più vicine alla realtà nei paesi in via di sviluppo  nei quali la deindustrializzazione prematura [5] ha gravi conseguenze, sia economiche che politiche.

Un altro esempio del peso sopportato dalle fasce più deboli per via  delle politiche economico-ambientali per favorire l’uscita dal carbone, è rappresentato dalle conseguenze dell’internalizzazione dei costi ambientali nei prezzi, in questo caso, dell’energia: i Gilet gialli.

Compensare le conseguenze negative dell’inquinamento causato da una certa categoria di prodotti (Es. combustibili fossili), attraverso l’introduzione di una tassa sul consumo di essi, pari al relativo danno ambientale, valutato in termini economici, può portare a rivolte sociali [6], come visto, appunto, in Francia. Il movimento, è giusto chiarirlo, non era fondato su valori anti ecologici o simili, ma aveva l’esplicita intenzione di protestare contro una tassa estremamente regressiva che colpiva esclusivamente il consumatore finale, in particolare con maggiore forza i ceti medio-bassi. Tutto ciò a causa di una totale mancanza di considerazione delle conseguenze distributive da parte del governo francese che ha portato all’elaborazione di una tassa la cui conseguenza è stata una rivolta sociale.

Una soluzione potrebbe essere la progettazione di nuove, ma soprattutto più elevate, tasse sull’energia, il cui gettito fiscale verrebbe utilizzato per ridurre la pressione fiscale sul lavoro, aumentando l’offerta e permettendo nel frattempo ai lavoratori di intraprendere una “transizione lavorativa” durante la transizione energetica.

La crisi economica: proposte ed impatti

Le considerazioni svolte finora mostrano un quadro estremamente problematico ed articolato, in cui, come al solito, le fasce più deboli della popolazione rischiano di vedere peggiorare ulteriormente le loro condizioni a causa di una transizione potenzialmente disordinata ed indifferente rispetto alle questioni sociali. Per questa ragione il tipo di transizione da intraprendere è di tipo socio-ecologico e richiede nuove soluzioni come proposto da Thomas Piketty con riguardo all’istituzione di un nuovo stato sociale, il quale “Richiederà una tassazione equa, per obbligare i ricchi e le grandi aziende a contribuire. Il regime attuale di libera circolazione del capitale, favorisce l’evasione dei miliardari e delle multinazionali di tutto il mondo e impedisce alle fragili strutture fiscali dei paesi poveri di sviluppare imposte giuste” (Internazionale 1354 | 17 aprile 2020).  L’economista francese sottolinea l’importanza di assicurare che questa forma di giustizia sociale sia socialmente ed ecologicamente sostenibile. Una proposta arrivata principalmente come soluzione alla crisi provocata dal coronavirus, la quale sta già imponendo pesanti tagli ai programmi pensati per sostenere la transizione e, di conseguenza, le fasce più deboli.

La crisi economica attuale avrà il potere di portare gli stati ad un bivio: da un lato, la strada dell’attesa, con un ulteriore ritardo nell’implementazione delle politiche di decarbonizzazione, dall’altro, l’accelerazione nella loro implementazione considerandone l’impatto  positivo in termini di posti di lavoro, crescita economica, risparmio su spese sanitarie e migliori condizioni di vita. Inoltre, l’importanza di questa seconda strada è stata riconosciuta anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 26 marzo 2020, dove si  sottolinea la necessità di integrare la transizione ecologica nel necessario ritorno alla crescita dopo la pandemia [7]. Tuttavia, gli effetti positivi delle politiche ambientali sono registrabili in un medio-lungo termine, spingendo quindi molti paesi ad intraprendere la prima di strada.

Ulteriore motivazione a favore di questa scelta risiede nell’aumento atteso del numero dei poveri provocato dalla crisi, che quindi farà sì che le nazioni introducano politiche esclusivamente assistenzialistiche con un grande dispendio di risorse fine a sé stesse, che tuttavia saranno incapaci di produrre benessere nel lungo periodo.

È proprio questa la motivazione che dovrebbe portare gli stati nazionali ad introdurre politiche per accelerare la transizione disegnate tenendo conto, e mettendo al centro di esse, delle fasce più deboli della popolazione al fine di  eliminare la possibilità di un aumento delle disuguaglianze, per permettere quindi allo stesso tempo un processo di transizione equo e giusto.


Fonti:
[1] Europe’s one trillion climate finance plan, European Parliament, 15-01-2020
[2] Towards a social-ecological transition Solidarity in the age of environmental challenge, Etui, 2014
[3] Shafik, N., (1994), Economic Development and Environmental Quality: An Econometric Analysis, Oxford Economic Papers, 46, p. 757-73.
[4] Maslow, A. H. (1943). A theory of human motivation. Psychological Review, 50(4), 370–396
[5] Rodrik, D. (2016), Premature deindustrialization. J Econ Growth 21, 1–33.
[6] Tagliapietra S., Zachmann G., Edenhofer O., Glachant J., Linares P., Loeschel A., (2019). “The European Union energy transition- key priorities for the next five years,” Policy Briefs 31598, Bruegel.
[7] Joint statement of the members of the European Council, 26 marzo 2020

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