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A quattro mesi – ma probabilmente di più – dalla comparsa del covid-19, l’interrogativo primario rimane come permettere una ripartenza senza rischi. O, perlomeno, con un rischio di nuova eventuale diffusione del virus quanto più basso possibile. Igiene, distanziamento sociale e utilizzo delle mascherine diventeranno la regola. Certi i primi due e probabilmente anche il terzo strumento, anche se per il momento rimane la non scientificità di queste protezioni, se siano sufficienti per non rimanere infettati, e soprattutto persiste il dubbio su come garantirne l’approvvigionamento a ciascun cittadino, data la loro non facile reperibilità. Le scuole rimarranno chiuse (perlomeno in Italia), le università continueranno con la didattica a distanza e dovranno trovare un modo per permettere di svolgere gli esami da remoto, mentre il mondo del lavoro ripartirà con tutte le precauzioni possibili, si spera. Per le vacanze estive c’è da attendere, sicuramente non sarà possibile trascorrerle all’estero e il mare nostrano rimane una possibilità piuttosto concreta, a sentire gli esperti. Certo, anche in quel caso le regole da adottare saranno stringenti (distanza di almeno un metro, posti ridotti per gli stabilimenti balneari e posate monouso nei ristoranti) ma abituarsi quanto prima alla nuova realtà sarà fondamentale. Il corona virus ha messo la parola fine al Novecento e ha aperto un periodo nuovo, della cui durata siamo gli unici decisori. Le disgrazie, come quella rappresentata dalla pandemia, hanno un unico lato positivo: permettono di capire gli errori commessi in precedenza e possono spingere a far meglio. D’altronde ci siamo rialzati dopo due conflitti mondiali che in termini sociali, politici ed economici sono stati tragicamente più pesanti. Malgrado ciò il dramma di oggi, e in parte anche di allora, sembrerebbe essere quello di non aver imparato alcunché .
I cambiamenti che dovevamo apportare, pena la nostra sopravvivenza, sembravano di difficile attuazione nell’immediato: come spiegare a una persona che deve radicalmente cambiare le sue abitudini? Ecco, l’opportunità è finalmente arrivata anche se è triste ammetterlo di fronte a quello che sta accadendo. Ma se non si trae il meglio da ogni situazione, anche la peggiore, il progresso si arresterebbe e con esso la società. La sconfitta del nostro sistema è datata 1989, anno in cui la caduta del comunismo ha fatto credere che l’unico modello vincente fosse quello capitalista neoliberale, da cui è nato il mondo globalizzato abbracciato con entusiasmo anche dal comunismo cinese 4.0. Questo sistema è stato abile nel mettere sotto il tappeto i suoi numerosi limiti. Primo fra tutti l’enorme divario tra ricchi e poveri, oggi in continua crescita. Anche a causa di situazioni di crisi come quella attuale, le disparità tra classi sociali non possono che aumentare. Il nostro mondo ha creato una parte, modesta, di vincitori e una troppo più grande di vinti, ai quali adesso serve offrire assistenza imminente. Il nostro mondo non funziona da un punto di vista economico, sembrerebbe chiaro, così come ha delle enormi fragilità sotto l’aspetto sociale ed è totalmente assente in tema ambientale. Se si vuole rinascere davvero è necessario un cambiamento drastico e l’impulso, stavolta, deve venire dall’alto. Ma nei discorsi che si ascoltano, tutto sembrerebbe rimanere così anche nel futuro più prossimo.
Praticità e concretezza, non parole
Si fa fatica, davvero, a comprendere quale sia il motivo che ci impedisca di intraprendere una nuova strada. Eppure appena qualche mese fa la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si era fatta promotrice di un piano europeo, il Green Deal, dimostrando la volontà di voltare pagina rispetto alle politiche passate. I problemi dell’Unione europea, oggi, sono altri e se una volta passato questo periodo si arriverà a una nuova discussione su questi argomenti sarà già un traguardo – vorrà dire che l’Unione esisterà ancora come istituzione. Impartire una rivoluzione dall’alto sulle piccole azioni quotidiane è però fondamentale. Greta Thunberg è stata capace di sollevare delle problematiche serie, reali, e tutto il mondo si è schierato dalla sua a buon ragione, compresi i vertici delle istituzioni invitandola a riunioni di ogni tipo. Fa effetto vedere una ragazzina di sedici anni impartire lezioni a capi di Stato, meno a quanto pare se a dirlo è la comunità scientifica che da anni prova a spiegare come l’avvento dei virus è tutt’altro fuorché casuale: il nesso tra questi e l’ambiente è più che stretto. Tra le opzioni più drastiche per ridurre il livello di inquinamento, la Thunberg spingeva affinché le persone viaggiassero il meno possibile in aereo, ad esempio. Un’idea che, oltre a non sapere quanto realmente possa avere effetto, ci farebbe compiere dei numerosi passi indietro. Piuttosto, l’esperienza del Covid-19 ha mostrato come ridurre l’utilizzo delle automobili così come diminuire la produzione possano avere degli effetti immediati: solo nel nostro paese, a Venezia sono tornati a farsi vedere i pesci, le acque dei fiumi nel Nord Italia si sono disintossicate e l’aria è più respirabile ovunque. Incentivare lo smart working, specialmente nella Fase 2 dove è possibile una seconda ondata epidemica, è essenziale non solo da un punto di vista ambientale ma anche sociale: offrire alle persone la possibilità di rimanere a casa permette loro di svolgere una funzione umana importante, quella di restare più tempo con la propria famiglia. Inoltre, il mezzo più utile per rispettare il distanziamento è la bicicletta: incentivare la creazione di nuove piste ciclabili, come già stanno facendo città quali Philadelphia, Denver, Minneapolis ma anche Budapest, Berlino e Città del Messico è una priorità alla quale bisogna far fronte. Così come garantire, magari a livello comunale, un servizio di spedizione a quegli esercizi che non lo hanno ancora attuato. In questo modo, la figura del rider verrebbe maggiormente tutelata e ripagata. Un esempio concreto in questo senso viene dalle librerie: la loro riapertura già ad aprile ha fatto storcere il naso a molti, impauriti che questa possa diventare una scusa valida per far uscire le persone. Perché quindi non garantire un servizio a domicilio anche per le piccole librerie indipendenti che ancora non sono attrezzate per questo?
È arrivato anche il momento di cambiare le nostre abitudini alimentari. La connessione tra allevamenti intensivi e nascita di nuovi virus non è ancora stata del tutto confermata ma sicuramente questi contribuiscono in maniera incisiva nella loro diffusione. Ripensare ad un modello di produzione alimentare basato sulla piccola e media produzione, piuttosto che su quella di scala, è essenziale per la nostra sopravvivenza. Nel mondo si mangia troppa carne e questo lo sappiamo, ma spesso il discorso viene ridotto – se così si può dire – a una questione salutare. Oltre a questo, il problema più imminente è che se continuiamo a produrre nella stessa maniera alimenti come la soia, da destinare a mangime per gli allevamenti intensivi, saremo costretti a coltivare quantità enormi di terra, distruggendo ecosistemi e biodiversità. Non cambiare le nostre abitudini alimentari ci porterà, inevitabilmente, a scegliere chi poter far mangiare perché con una popolazione in costante crescita (nel 2050 si stima saremo 2 miliardi di persone in più, circa quattro in più se si pensa al 2100) e una disponibilità di risorse naturali in continua diminuzione, l’esito non può che esser questo. Abbiamo l’urgenza di ripartire dalla comunità scientifica ascoltando ciò che da tempo prova a spiegarci, senza chiamare eroe chi lavora con serietà e professionalità, altrimenti dovremmo chiamare terroristi chi non vuole ascoltare e continua a ritenere la ricerca un elemento sacrificabile.
Uno Stato sociale per far sì che non arrivi all’assistenzialismo
L’unico modo per uscirne fortificati sarà creare una nuova comunità che riparta dall’individuo e dall’ambiente dove egli vive, salvaguardando tutte le comunità e le specie che abitano questo pianeta. Il rischio è il collasso dell’intero sistema, ad iniziare da quei paesi che fino a ieri erano i leader dello scacchiere internazionale, Stati Uniti e Cina, dove tutti i loro limiti intrinseci stanno ora venendo a galla e rischiano di creare gravi tensioni sociali. I termini utilizzati sono volutamente apocalittici, ma non si discostano di troppo dalla realtà che ci si prefigura di fronte se non abbracceremo con entusiasmo il cambiamento. Serve una comunità capace di ridurre le disuguaglianze sociali ed economiche, che non lasci alcun individuo indietro e non provi a nascondere le proprie fragilità dietro un dito. In questo senso, la riapertura delle scuole voluta dal governo francese per evitare disuguaglianze sociali tra gli studenti è indicativa. In tal modo, si rimanda ancora una volta il dibattito su come si possa ridurre il gap tra ricchi e poveri e si rischia una nuova diffusione del virus. Certo, meglio proporre piuttosto che abbandonare la questione come da noi, ovvero rimandando la questione a settembre senza alcun proposito. Si può evitare di tornare a scuola per un mese, ma siccome si sta parlando dell’educazione dei cittadini più giovani l’alternativa non può essere affidata a dei tablet, specie se non tutti hanno i mezzi per seguire le lezioni da casa (secondo i dati ISTAT, il 14,3% delle famiglie con un minore non posseggono un computer o un tablet: per approfondire leggere Christian Raimo, Chi viene lasciato indietro rischia di non tornare più a scuola, su Internazionale). Ancora: potrebbe essere l’occasione per abbattere i test d’ingresso alle università e provare a vedere se il sistema di scrematura naturale sia davvero non perseguibile come si dice. Così come in Italia è ora di prendere la “forte” decisione di regolamentare i migliaia di braccianti che lavorano nelle terre e dar loro dignità, piuttosto che ringraziarli per un lavoro da noi abbandonato e strillare contro il caporalato senza agire. Insomma, gli spunti sono tanti.
È arrivato il momento di affrontare tutte le questioni di petto e con coraggio e per riuscirci necessitiamo, come non mai, di uno Stato sociale vero. Se non ora, quando?