Economia

Il virus che ci fa ripensare lo Stato

Il cigno nero

Il COVID-19, è ormai comunemente accettato, rappresenta un “cigno nero” nella contemporaneità. Questa è l’ormai nota espressione coniata dal filosofo libanese-americano Nassim Taleb nel suo saggio omonimo diventato punto di riferimento per indicare tutti i fenomeni imprevisti che ci fanno ritrattare le nostre convinzioni sull’ordine sociale, politico e economico. La pandemia in corso richiede amministrazione, pianificazione, assistenza e spinge i governi ben oltre le frontiere (sia formali che sostanziali) a cui eravamo abituati. Osserviamo infatti il ritorno di uno Stato “protettore” dove, oltre alle classiche misure fiscali e monetarie, si affiancano sistemi di controllo della persona e della rete industriale per motivi di interesse nazionale. Tuttavia, quella che sembra ordinaria amministrazione d’emergenza potrebbe avere conseguenze durevoli: la storia insegna che il mutamento del ruolo dello Stato in tempi di crisi tende a permanere anche dopo la fine di questi. Ora, prevedere in che direzione muoverà questa tendenza è arte aruspicina e sulla bontà o meno di questi mutamenti, ai posteri l’ardua sentenza. Quello che invece questa drammatica crisi offre è l’occasione per una riflessione costruttiva sul ruolo dello Stato nell’economia in generale e sul rapporto del capitalismo stesso con la politica, soprattutto in Europa. Vediamo come.

Il rigetto per il Leviatano…

Quando negli ultimi anni, soprattutto in Italia, abbiamo sentito parlare di Stato, lo scetticismo regnava sovrano. A partire dalla crisi del 2008, le accuse contro lo Stato spendaccione, soffocante e immobilista si sono sprecate. “Abbiamo speso troppo, bisogna tagliare, bisogna deregolare” erano espressioni che dominavano un dibattito che si soffermava sulla necessità di lasciare spazio allo spirito innovatore dei privati troppo a lungo imbrigliati negli ostacoli burocratici. Questo era anche, in sintesi, il fine dei programmi di austerity imposti dalle istituzioni europee ai paesi colpiti dalla crisi in maniera più violenta: la riduzione della spesa pubblica e del debito per lasciare spazio e fiducia alle imprese, autonome fucina di innovazione e crescita. Questa inclinazione, figlia dalla particolare concezione neoliberale del rapporto tra Stato e economia originatasi a partire dagli anni ’80, ha contribuito così nel tempo a scolpire una narrazione dello Stato inefficiente, quasi dogmatica, per la quale intromissioni statali non-emergenziali sono inammissibili.

… nonostante il suo ruolo indispensabile

Su questa visione vi sono tuttavia anche voci fuori dal coro, come quella dell’economista Mariana Mazzucato (recentemente nominata consigliere economico a Palazzo Chigi per gestire la crisi coronavirus). La Mazzucato, nel suo Lo Stato Innovatore, sostiene l’infondatezza del mito per cui crescita ed innovazione si possano ottenere solo con uno Stato nelle vesti di mero “sorvegliante” delle regole del libero scambio. Al contrario, un ruolo attivo del governo è fondamentale, e non solo nei periodi di crisi. Lo Stato, se in buona salute, è disposto ad assumersi rischi notevoli promuovendo sistemi di innovazione e fornendo capitali in settori dove le imprese non oserebbero intervenire, nemmeno con minore pressione fiscale. È spesso lo Stato a creare mercati e a fornire la spinta dinamica necessaria per la crescita, diventando il miglior alleato del privato. Per fare un esempio, le grandi innovazioni dell’industria digitale statunitense sono state tutte accompagnate da un network di finanziamenti e controllo statale che ha funto da “apripista” per la fiducia nell’investire. Non è falso che talvolta una presenza eccessiva del settore pubblico possa ostacolare il dinamismo dell’economia, ma l’inefficienza non si spiega con “l’ammontare” della presenza bensì con la qualità della stessa. Lo Stato può avere, infatti, un ruolo fondamentale non solo in quanto fornitore di finanziamenti di base, ma per la sua capacità di creare sistemi innovativi di cooperazione pubblico-privato, di condivisione delle conoscenze, di interazione strutturale e tutto questo senza dover ricorrere a burocrazie illimitate o piani quinquennali. Se la presenza è di questo tipo, l’intero sistema-paese non può che beneficiarne.

L’interesse politico che muove l’innovazione

Inoltre, il ruolo “sviluppista” dello Stato risalta in particolare quando esso è mosso da interessi politici che ne guidano l’azione. Uno sguardo al mondo d’oggi vale più di ogni spiegazione. Dietro le guerre dei dazi ci sono forti motivazioni politiche di mantenimento e ricerca del potere dove le superpotenze difendono i loro tessuti industriali per sfruttarne i vantaggi competitivi. È proprio in questo contesto che capiamo come la compenetrazione tra politica e economia sia una situazione win-win, dove la rete industriale del paese è un asset fondamentale da proteggere e su cui investire. Il collegamento con gli interessi strategici potrebbe essere un ponte fondamentale per la creazione di quei sistemi di collaborazione pubblico-privato che garantiscono innovazione e crescita. In questo senso, le differenze tra Europa e Stati Uniti forniscono un esempio esplicativo. Entrambi i sistemi si fondano su costituzioni economiche fortemente “liberiste” ed entrambi possiedono tra i mercati unici più estesi del pianeta. Ciononostante, solo uno dei due ha visto la nascita di un numero significativo di giganti industriali di rilievo globale. Le motivazioni risiedono proprio nella diversa presenza dello Stato nell’economia, dovuta a ragioni più strategiche che ideologiche. L’Europa del dopoguerra, infatti, è stata costruita in avversione al concetto di politica di potenza e al perseguimento dell’interesse strategico. Dopotutto, c’era ben poco di cui occuparsi di cui non si occupasse già Washington per mezzo della NATO. Si è costruito così un modello di governance basato sull’economicismo, sul disaccoppiamento tra economia e interessi strategici, concentrandosi su uno Stato Sociale sostenuto dagli stellari tassi di crescita e produttività del boom manifatturiero. Scomparse le condizioni che consentivano queste manovre, la timidezza politica europea (codificata nelle stringenti regole UE sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato) esce allo scoperto e allontana così le nazioni europee dal ruolo tanto fondamentale di sostenitrici dell’economia, lasciandole spaesate tra uno Stato Sociale sempre più costoso da sostenere e un tessuto industriale alla mercé dei giganti del capitalismo politico.

L’esempio di oltreoceano

La diversa cultura strategica spiega infatti come gli Stati Uniti, nonostante siano spesso citati come esempio di turboliberismo sregolato, abbiano la politica industriale più avanzata al mondo e siano riusciti a plasmare quella rete di sostegno reciproco tra pubblico e privato di cui appunto parlavamo. Il segreto del successo delle aziende big-tech non deriva solamente dall’indiscutibile genio dei cervelli della Silicon Valley combinato con un settore finanziario rampante che fornisce fiumi di capitali a rischio, ma anche e soprattutto da un programma di investimenti federali mission-oriented che ne ha sostenuto crescita e innovazione proprio per aver intravisto le potenzialità strategiche del settore. Non è quindi un caso che la più grande invenzione degli ultimi cento anni, Internet, sia nata e cresciuta sotto l’ala protettiva della DARPA ( agenzia statunitense incaricata di sviluppo di tecnologie per uso militare) così come non ci stupisce l’origine militare del GPS. Questo connubio statunitense tra scienza e apparato militare è solo un aspetto dello stretto legame tra le aziende e i poteri pubblici che deriva proprio dalla cultura americana della “frontiera infinita”, ovvero del primato del perseguimento e mantenimento degli interessi strategici.

La necessaria autocoscienza dello Stato

La longa manus dei governi nazionali che scorgiamo in questo periodo presagisce quindi un’espansione dei poteri statali. Ciò, come emerge dall’importante dibattito sulle possibili compromissioni delle libertà, non è sempre sinonimo di positività, e le diverse visioni dei rapporti Stato-economia rimarranno. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare l’importanza dello Stato nel plasmare un ambiente di innovazione produttiva che traini la crescita del paese. Inoltre, non è necessario rinunciare al nostro Welfare o alle nostre libertà per avere un tessuto industriale competitivo e d’avanguardia. Anzi, potrebbe essere proprio quest’ultimo a salvarli. L’efficacia di questa formula trascende la narrazione ideologica “Stato contro mercato” e non implica scelte di campo. In verità, essa è caratteristica di Stati immersi nella storia, di Paesi guidati da un anelito di padronanza del proprio destino. Per ritrovare il suo ruolo chiave e innescare la reazione, lo Stato deve prima ritrovare sé stesso. Per le nazioni europee, ricominciare a pensare strategicamente (perché no, mutatis mutandis, a livello UE) sarebbe un buon inizio.

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