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Focus sul mondo del lavoro, tra post Covid19 e Digitalizzazione – Intervista a Gabriele Gabrielli

Torna un nuovo appuntamento di confronto e di approfondimento con un grande professionista.
In questa occasione AWARE ha avuto l’onore di incontrare Gabriele Gabrielli che nella sua lunga carriera professionale ha ricoperto numerosi ruoli sia aziendali che accademici. L’intervista si focalizza principalmente sul ruolo e la funzione del Direttore del personale e come questa figura è cambiata – e cambierà – a seguito del Covid19 e del processo di digitalizzazione che ha investito il settore HR.
Gabriele Gabrielli è executive coach, imprenditore e consulente, autore, Consigliere delegato di People Management Lab Srl – Società Benefit e BCorp. Inoltre, è professore a contratto di Organizzazione e gestione delle risorse umane e People management e reward all’Università LUISS Guido Carli. 
Infine, è ideatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona, oltre ad aver ricoperto il ruolo di Direttore Risorse Umane e Organizzazione in gruppi e imprese pubbliche e private.

Seguo la sua fondazione “Lavoroperlapersona” e percepisco veramente tanta passione in quello che viene fatto. Essendo quindi sia imprenditore che uomo di organizzazione le chiedo: all’interno di un’organizzazione quanto è importante essere sé stessi e quindi lasciare che la propria personalità e le proprie passioni emergano piuttosto che essere solamente un dipendente che esegue gli ordini?

Quello che chiami essere sé stessi è una ricerca continua nella vita di ciascuno e riveste un’importanza decisiva per fare bene il proprio lavoro, per creare impatto e per essere felici. Cercherò, successivamente, di spiegarmi meglio dal momento in cui sono tre i passaggi fondamentali che dovrebbero essere ben tenuti in considerazione da imprenditori e manager; anche se so bene che non c’è ancora profonda consapevolezza di questo. Per esprimere meglio quello che penso al riguardo ricorro agli insegnamenti di un grande psicologo, molto citato ma poco letto: Abraham Maslow. La conoscenza del fondatore della Psicologia Umanista si ferma per lo più alla piramide dei bisogni con cui è stato sintetizzato e divulgato il suo lavoro. Maslow, quando riflette sull’autorealizzazione, scrive pagine profondissime proprio su quello che mi domandi. In Motivazione e Personalità, la sua tesi, ancora poco interiorizzata da larga parte del management, è che il collaboratore è destinato a permanere in uno stato di malessere e scontentezza fino a quando “non sarà occupato a fare ciò che egli, individualmente, è adatto a fare”. Quest’idea, come dicevo prima è ancora poco valorizzata e presa sul serio. Ma da sola potrebbe costituire il manifesto-guida per il lavoro di imprenditori, capi e professionisti che si occupano di gestione delle risorse umane nelle imprese e nelle altre organizzazioni. 

Cosa significa? Voglio dire che la volontà di mettere le persone in condizioni tali da poter esercitare questo loro bisogno-diritto di autorealizzazione, dovrebbe trovare risposta in pratiche manageriali che mettono al primo posto l’ascolto e la ricerca di tutti gli aggiustamenti organizzativi necessari perché le persone siano felici nel lavoro, potendo esprimere il meglio di sé.

C’è una frase di Maslow davvero potente che risponde compiutamente alla domanda che mi poni:  “ciò che uno può essere, deve esserlo”. A mio modo di vedere è questo il principio fondante dell’etica manageriale nel campo della gestione delle risorse umane. Ciascuna persona, in altre parole, dovrebbe essere aiutata “a diventare tutto ciò che si è capaci di diventare”. Chiudo dicendo che questa idea ispira il lavoro della Fondazione Lavoroperlapersona, ma anche la visione che condivido con i miei allievi in università e anche, evidentemente, quando sono impegnato ad aiutare come consulente e coach, a seconda delle situazioni, i clienti delle Società benefit e BCorp che ho fondato.

Sempre su questa scia, si nasce imprenditori o ci si diventa con l’esperienza?

È una grande questione quella che poni. Difficile dirlo. Credo che tutti abbiamo in dotazione spirito di autonomia, creatività e capacità organizzative. La loro forza ed espressività però dipendono da molti fattori. Importante è il contesto in cui si cresce e si lavora, importanti sono le persone, i leader e i capi che si incontrano. Fa una certa differenza lavorare con un manager che ti incoraggia ad assumere iniziativa, a dire ciò che pensi, a non preoccuparti degli errori che puoi commettere. Così come fa molta differenza da quale sorgente attingi l’acqua, ossia l’energia, che ispira ciò che fai, i valori che ti guidano nella vita, non solo nel lavoro. Anche qui voglio condividere il pensiero di un grande uomo, prima che economista e premio Nobel: Muhammad Yunus. Egli scommette sullo sviluppo di un’imprenditorialità universale, una frontiera lungo la quale poter immaginare che l’uomo trovi la sua felicità nel lavoro. Yunus respinge l’ipotesi sulla quale l’economia è ancora fondata su “un uomo egoista e auto interessato”. Non è così e spiega: “Nei bambini anche in tenera età va inculcata una comprensione più ampia dell’economia, che riconosce il lato altruistico della natura umana e non solo quello egoistico e tenga conto delle molte motivazioni diverse, al di là dell’arricchimento personale, che danno impulso alla creatività e alla produttività umane”. È un pensiero che si connette a quanto dicevamo prima con Maslow: “scommettendo su un processo di allargamento progressivo della scelta delle persone di voler diventare”, come ama dire il premio Nobel indiano, “ bisogna essere creatori di posti di lavoro”, piuttosto che “cercatori di posti di lavoro”.

Ha ormai alle spalle tantissimi anni di esperienza, le volevo chiedere quanto e come è cambiata la figura del direttore del personale all’interno delle organizzazioni?

Quanto è cambiata o piuttosto quanto dovrà cambiare? Non è una battuta, credo davvero che le sfide di quest’epoca esigano un cambio di passo e di paradigma anche dal direttore del personale, come si usava dire una volta. Le ragioni sono numerose e non posso nemmeno sfiorarle. C’è però un cambiamento importante nell’economia e nella gestione degli affari che merita di essere menzionata per le sue implicazioni nel campo della gestione delle risorse umane e della sua leadership. Nell’economia si stanno sviluppando le condizioni, di natura diversa, perché possa avvenire un vero e proprio cambio di paradigma. Le imprese stanno capendo che non possono essere più “estrattive”, ma che devono diventare “generative”. Il sociologo ed economista Mauro Magatti la chiama giving economy, un’espressione davvero efficace. Cosa significa? Vuol dire che la massimizzazione del profitto non è più lo scopo delle imprese, viceversa le imprese devono pensare ad altro, a soddisfare tanti altri soggetti e, soprattutto, a migliorare il mondo. Si tratta di un cambio epocale che comincia a prendere forma e acquisire cittadinanza anche nelle grandi multinazionali. Insomma, si sta scoprendo – o forse meglio ri-scoprendo – questo aspetto, visto che già l’economia civile lo afferma dal XVII secolo: il fine dell’impresa non è affare privato ma è affare pubblico in quanto ha uno scopo sociale. Quali implicazioni avrà questo “cambio” sulla gestione dell’impresa? E quali implicazioni avrà sulla leadership della gestione delle risorse umane? Direi enormi, soprattutto saranno inedite perché richiedono di riscrivere gran parte delle pratiche di HRM per collocarle adeguatamente in questo nuovo scenario. Pensiamo soltanto alla performance. In base a cosa valuteremo chi performa bene o meno bene in questo nuovo scenario? 

Ma il direttore del personale sarà così importante anche nell’era della robotica e dell’intelligenza artificiale?

Copertina del libro “Il lavoro dell’uomo con i robot. Alleati o rivali?” di G. Gabrielli

Lo sarà ancora di più per diverse ragioni. Innanzitutto perché la nuova grande trasformazione del lavoro – come ho scritto in un recente lavoro – getta le basi per costruire uno spazio inedito di convivenza tra cervelli diversi, quello umano e quello digitale. Si aprono spazi di cooperazione sconosciuta, un terreno per osservare come il comportamento delle persone nelle organizzazioni cambierà e con quali atteggiamenti vivremo questo cambiamento. Un classico terreno dove le direzioni HR più sensibili, attente e preparate possono dare un contributo fondamentale. A cominciare da quello necessario per gestire un cambiamento epocale. Alleati o rivali dei robot? Mi interrogo nel piccolo volume che sto ricordando nel quale raccolgo anche il contributo di autorevoli colleghi. In quest’epoca c’è bisogno di un nuovo dialogo, di costruire le condizioni per una nuova grande partecipazione dei lavoratori al cambiamento. Chi meglio del direttore del personale può incarnare tale ruolo? Ma, come anticipavo prima, dovrà cambiare lui stesso, e in profondità. Apertura, interdipendenza, autorealizzazione, vocazione, autonomia, motivazione intrinseca, impatto sociale, sostenibilità saranno alcune parole chiave del suo lavoro di accompagnamento. È questa la sfida che ha.

Quali sono le sfide che il settore HR dovrà essere in grado di affrontare nel breve medio termine in virtù dell’emergenza Covid19?

Saranno numerose. Quella organizzativa è di gran lunga la più significativa. Il lavoro da remoto ci è piombato addosso senza preavviso con le sembianze dello smart working, ossia di un lavoro che può essere prestato ovunque e sempre. In realtà, però, non è stato così perché, semmai, si è trattato di un regime di smart working forzato. Ora si sta consolidando l’idea di un progressivo ampliamento del ricorso al lavoro a distanza. Numerosi fattori spingono in tale direzione: ambientali, di natura economica e di costo, di produttività e benessere. Insomma, lo scenario dei prossimi tempi sarà quello contrassegnato dal passaggio dallo smart working dell’emergenza a quello strutturale. 
La funzione HR è interpellata da numerose questioni. Una in particolare merita attenzione e si collega alla risposta che ho dato alla domanda precedente: siamo pronti ad un cambio di lavoro che si presenta al tempo stesso come un mutamento della sua filosofia? Nel vocabolario dello smart working, infatti, ci sono parole quasi eversive per la cultura manageriale ancora dominante. Sono parole come responsabilizzazione e attenzione ai risultatifiducia e autonomia. Riusciranno i manager a scrollarsi di dosso l’ansia del controllo? E in che forma potranno esercitarlo da lontano? Estendere lo smart working, dunque, è operazione assai complessa perché richiede di intervenire sulla cultura del lavoro. Il lavoro da fare è davvero tanto, basti pensare al fatto che sarà necessario riscrivere gli stessi modelli di leadership per tenere conto dei nuovi comportamenti e competenze che risulteranno efficaci per gestire team e persone al di fuori dei nostri sguardi.

Chiudo con una domanda personale che sto cercando di fare a tutte le personalità che ho avuto, e che avrò l’opportunità di intervistare: un vero Leader si vede nei momenti di difficoltà. Non voglio quindi chiederle qual è stato il momento più felice della sua lunghissima carriera, ma quale invece è stato il più difficile, se c’è stato un fallimento che lo ha segnato in particolare e come è riuscito ad affrontare e ribaltare questo momento negativo.

In verità c’è solo l’imbarazzo della scelta, perché di cose che non sono andate come le avevi pensate ce ne sono state tante nella mia carriera. E continuano a farmi compagnia. Non le chiamerei però fallimenti, semplicemente fatti che hanno riaffermato il principio che “la realtà è superiore all’idea” come dice Papa Francesco. La mia storia è piena di incidenti di questo tipo che riguardano per lo più progetti, ma qualche volta anche persone. Come quando avevo pensato che il mio team dell’epoca dovesse seguirmi entusiasta in una sfida che ritenevo per noi strategica. Sono stato freddato, non ricordavo di averlo sperimentato prima almeno con questa modalità, con un semplice ma potente: “noi non ci stiamo, questa volta no”. Già avevo pianificato i mesi successivi, speso qualche parola di troppo con altre persone, con il mio capo ad esempio, l’AD dell’azienda dove lavoravo. Il mio orgoglio, diciamo, ha ricevuto un gran ceffone. E meno male, perché il progetto – con il senno del poi – sarebbe stato un bagno di sangue. Ho imparato molto naturalmente.

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