Sostenibilità

La sicurezza alimentare e l’impegno delle istituzioni: intervista a Daniele Fattibene

La settimana tematica di AWARE dedicata alla sostenibilità alimentare continua con un’intervista a Daniele Fattibene. Quest’ultimo è ricercatore e consulente che collabora con l’Istituto Affari Internazionali (IAI) e il Barilla Center for Food and Nutrition (BCFN), si occupa di varie ricerche sui temi della sicurezza alimentare e dello sviluppo sostenibile. In passato ha lavorato sul tema dello spreco alimentare a livello europeo, italiano e locale e ultimamente si occupa di analizzare come le città possono promuovere sistemi alimentari più equi e sostenibili.

Grazie a queste sue competenze abbiamo potuto approfondire insieme a lui il tema della sicurezza alimentare, fondamentale se si vuole ampliare il discorso relativo alla sostenibilità, affrontando anche gli accordi commerciali stipulati dall’Unione Europea spesso attaccati e criticati per i rischi legati all’importazione di cibi dall’estero. Infine abbiamo chiesto a Daniele Fattibene quali sono le scelte politiche e le attività di città ed in generale le istituzioni.

Definizione di sicurezza alimentare. Perché è diventata così importante a livello mondiale tanto da farla rientrare nel punto n.2 degli SDGs dell’agenda 2030?

Questo tema possiamo dividerlo in tre punti. Il primo punto che bisogna accennare è che la definizione di sicurezza alimentare classica, fu stabilita e condivisa nel 1996 durante il World Food Summit, dove si parlò delle varie dimensioni della sicurezza alimentare come l’accesso al cibo sano e nutriente da parte di tutti a prescindere dalle condizioni economiche e sociali in cui vivono. Oltre a questa definizione c’è poi tutto ciò che ruota attorno al dibattito sull’evoluzione della definizione di sicurezza alimentare che è mutata molto nel corso dei decenni e che dovrebbe includere al suo interno anche una dimensione di sostenibilità. È  chiaro che in un mondo dove la popolazione globale aumenta, in cui c’è un problema di disponibilità di accesso al cibo, bisogna porsi il problema non soltanto di aumentare la produzione per sfamare un numero crescente di cittadini, ma persiste il problema di come poi viene prodotto quel determinato alimento. Il secondo tema è un’evoluzione della definizione in rapporto alla dimensione di sostenibilità, questo perché si rischierebbe di considerare la sicurezza alimentare nell’ottica dei vecchi Millennium Development Goals che riguardavano solo i paesi in via di sviluppo, mentre la sicurezza alimentare riguarda tutti. Il terzo tema che bisogna sottolineare è ciò che riguarda la sicurezza alimentare e tutti i suoi impatti, considerevoli in quanto coinvolge un gran numero di attori. La sicurezza alimentare è il tema fondamentale della dell’agenda 2030 e per realizzarla deve essere innanzitutto localizzata. 

Riguardo all’accordo firmato dall’Unione Europea con il Mercosur, questi tipi di accordi potrebbero essere dannosi per alcuni stati membri dell’unione stessa?

A riguardo ci sono stati sempre grandi dibattiti: da una parte quelli che credono che ci troviamo in un’epoca dove il multilateralismo e il libero commercio sono messi in forte discussione soprattutto dagli Stati Uniti; in questo ambito, è sempre più importante che l’Ue continui ad essere il baluardo nella diffusione della libera circolazione; dall’altro canto ci sono tutti gli attori, specialmente non governativi ma anche economici, che ovviamente li analizzano in maniera più critica.

In una prospettiva di sostenibilità, possiamo giudicare un’Unione Europea efficiente se, con riguardo agli accordi commerciali, si compia un lavoro di screening sulle esternalità positive o negative in maniera il più possibile trasparente per cercare di analizzare gli impatti di un determinato accordo. 

L’Ue come realtà è molto attenta alla cosiddetta “food safety”, ovvero attenzione agli standard igienico-sanitari che consentono di considerare un determinato prodotto commestibile e non dannoso per la salute; questo concetto è da non confondere con “food security” che comprende tutto ciò che riguarda la produzione e accesso al cibo. Questo è un grosso problema perché spesso alcune politiche che sono state fatte a livello europeo poi sono state modificate. Questo perché, a causa dell’assenza di un’entità inter dipartimentale che si occupa di alimentazione, spesso sono state gestite da DG SANTE (responsabile delle politiche della Commissione europea in materia di salute e sicurezza alimentare), direzione questa che a volte rischia di approcciarsi al cibo da una prospettiva unicamente igienico-sanitaria perdendo l’attenzione sugli altri elementi collegati. È una problematica ricorrente questa delle organizzazioni complesse: quando si affronta un tema così trasversale bisogna inserirlo e incardinarlo in una specifica cornice al fine di alimentare le politiche a livello europeo, partendo proprio dalla direzione generale DG SANTE.

La FAO stima che entro il 2050 vivrà all’interno delle città il 70% della popolazione mondiale. Lei ha partecipato alla redazione della proposta “Una Food Policy per Roma. Perché alla Capitale d’Italia serve una politica del cibo”. In che modo le città possono rappresentare una soluzione alle necessità di alimentazione della popolazione?

Le città, negli ultimi decenni, sono state messe da parte, sono state considerate come attori marginali nella filiera alimentare perché si pensava che il cibo fosse prodotto esclusivamente all’esterno, nelle campagne, e che nelle città ci fossero soltanto i consumatori. Questa concezione ha creato prima di tutto una rivalità fortissima tra città e campagna e successivamente ha svuotato la figura del decisore politico urbano, non tanto dei poteri ma della consapevolezza che potesse incidere sui vari piani dell’alimentazione. Fortunatamente, negli ultimi 20 anni, la situazione è cambiata: principalmente a livello di organizzazioni internazionali e poi di territori è ritornata questa consapevolezza. Sono molti anni che la FAO lavora su questo campo e nel programma Food Cities ha analizzato il tema dell’alimentazione urbana. Inoltre, è stato interessante capire come l’EXPO di Milano abbia creato un effetto domino impressionante a livello di alimentazione urbana: con la carta di Milano e poi con la creazione del patto di Milano, le politiche alimentari hanno portato al Milan New Policy Pact: le città hanno iniziato a coordinarsi al fine di creare dei network per condividere delle buone pratiche sui vari settori dell’alimentazione, creando così le cosiddette politiche alimentari urbane

La rivoluzione degli SDGs è soprattutto amministrativa prima che politica e culturale in quanto se questi SDGs non si riescono a tradurre per poi essere misurati o realizzati tutta la macchina amministrativa si blocca, creando un blocco dell’attività politica stessa. 

Tornando al Goal 2 e ai diversi target che compongono tale obiettivo, come si pongono le istituzioni, nazionali e sovranazionali, nel tentativo di raggiungerlo entro il 2030?

Dal punto di vista sovranazionale vediamo come l’Unione Europea rispetto ad altri enti è un passo avanti: la sostenibilità è sempre stata un punto fermo. 

Il passo in avanti più grande è stato fatto quest’anno con il Reflection Paper, uno “sforzo” interessante non soltanto perché cerca di inserire temi trasversali in un’organizzazione complessa, il che già è difficile di per sé, ma soprattutto, tende, con la stratificazione dei compiti e delle responsabilità, ad inserire un tema così complesso come gli SDGs, in quanto essi lambiscono tutti gli individui ed obbligano a lavorare in maniera coordinata. 

Il problema è quello di arrivare sì ad un negoziato tra i diversi stati, ma dove un alto grado di ambizione, basato sulla volontarietà, possa portare ad un’Europa a più velocità, in cui avremo paesi particolarmente sensibili (paesi nordici) e paesi invece che, per cultura, o perché hanno altre priorità, mettono la sostenibilità in secondo piano. Sicuramente il fatto di non avere un meccanismo preciso di reportistica, sia nei singoli paesi che a livello comunitario, indebolisce di molto il livello di armonizzazione tra i paesi. 

Per ciò che concerne il modello italiano, grazie agli sforzi compiuti da Asvis, il governo ha creato una cabina di regia, Benessere Italia, interministeriale e inter dipartimentale sullo sviluppo sostenibile. La sua struttura è così composta: vari soggetti governativi e non, come ministeri e istituti di ricerca nazionali (Ispra ed Istat) e poi un comitato scientifico indipendente in cui sarà presente l’Asvis, con il ruolo di valutatore esterno. Lo scopo è quello di andare al di là delle vicende politiche e di creare una nuova struttura inter dipartimentale ed innovativa che porti ad avere una strategia precisa di sviluppo sostenibile, evitando le eventuali esternalità negative di una politica rispetto un’altra. 

La fortuna è che negli equilibri di forza sanciti dalle ultime elezioni il tema dello sviluppo sostenibile è molto considerato in quanto, oltre a trovarsi all’interno del contratto di governo, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che presiede numerosi eventi sulla sostenibilità, evidenzia una sua reale sensibilità al tema. 

Però io metterei comunque in risalto il fatto che esiste una cabina di regia, vi è stata una strategia nazionale concreta e abbiamo un Ministro dell’ambiente che ha lavorato molto in questo campo. La presenza dell’Asvis è fondamentale perché ha funzione di “cane da guardia” e allo stesso tempo si fa promotore di nuovi progetti, come sta lentamente riuscendo a livello nazionale, si auspica un suo vitale operato anche livello europeo. Portando la sua agenda e il suo modo di pensare sicuramente risulterà un buon risultato sia per il paese in generale, ma anche per l’Europa stessa.

Ringraziamo nuovamente Daniele Fattibene per il tempo che ci ha dedicato e per le interessanti e stimolanti risposte sui vari temi affrontati.

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