Nella zona nord-occidentale della Siria, a Idlib, è in corso la peggiore crisi umanitaria del XXI secolo, che vede in atto i combattimenti tra le forze governative del regime Assad sostenuto dalla Russia di Putin, e le milizie ribelli appoggiate dalla Turchia di Erdogan.
Ma per riuscire a comprendere il complesso intreccio di guerre e interessi internazionali in Siria, è necessario fare un passo indietro.
Una guerra lunga nove anni
Da molti anni a questa parte, la guerra in Siria, iniziata con l’avanzare delle cosiddette “primavere arabe”, si è gradualmente trasformata in qualcosa cui è difficile dare un nome, amalgamando insieme la lotta per la sopravvivenza di un regime arabo violento e autoritario, le ambizioni di un gruppo terroristico capace di creare uno Stato autosufficiente, il coinvolgimento di potenze straniere, le rivendicazioni di minoranze etniche discriminate da decenni, e così via.
Nonostante non sia possibile ricondurre quella siriana a una tradizionale guerra che vede contrapposti due stati – come il caso dell’Iraq e gli Stati Uniti del Presidente Americano Bush nel 2013, solitamente la sua data di inizio è collocata nel marzo 2011, quando migliaia di siriani manifestarono a Damasco e Aleppo contro il governo guidato dal regime di Bashar al Assad.
In questa prima fase della guerra civile non si parla di terrorismo, né tanto meno di Stati Uniti e Russia, ma piuttosto unicamente del disappunto popolare nei confronti del governo, parte di quel movimento definito “primavere arabe” iniziate alcuni mesi prima in Tunisia ed Egitto e successivamente diffusosi in tutto il Medio Oriente, che nei casi più fortunati aveva portato alla distruzione del potere dei capi di governo autoritari.
Nel corso del tempo però, il numero di conflitti in atto nel territorio siriano aumenta: si aggiunge nel 2014 la guerra che coinvolge lo Stato Islamico, combattuto principalmente dagli Stati Uniti e da una coalizione di forze siriane capeggiata dai curdi, il quale però contemporaneamente porta avanti il contrasto contro le milizie ribelli. Ad aggiungersi sono anche le tensioni createsi in seguito all’intervento turco in Siria, che si scontra contro il gruppo di minoranza curda e lo Stato Islamico. Infine, a rendere questo intreccio di lotte più intricato è l’inizio di guerriglie tra i diversi gruppi ribelli che riflettono spesso le discordie religiose di cui è caratterizzato l’islamismo.
Ma quello che sta avvenendo nella città di Idlib può essere considerato teatro delle lotte antigovernative contro il regime di Assad, essendo l’ultimo territorio ancora sotto il controllo dei ribelli. L’opposizione che si è sviluppata in questo decennio vede da una parte la coalizione di Assad, composta dalle milizie siriane riunite sotto il nome Forze di Difesa Nazionale (NDF) che includono per la maggior parte le forze paramilitari che rispondono alla famiglia Assad, nate in sostituzione all’esercito siriano, indebolito fin dai primi mesi della guerra civile. La coalizione si articola poi delle milizie straniere formate da gruppi di palestinesi, afghani, pachistani e iracheni che fanno per lo più capo all’Iran, della milizia libanese sciita chiamata Hezbollah e considerata gruppo terroristico da USA e Europa, e infine del supporto russo di Putin grazie al quale la Siria è stata provvista di aerei da guerra, consiglieri militari, forze speciali e mercenari organizzati in unità che operano sotto la guida del governo russo.
Ma per quale motivo la Russia interviene? La ragione sta nella salvezza del regime di Assad, che avrebbe garantito a Putin la sopravvivenza di quanto c’è di buono nelle relazioni fra i due governi che vanno avanti dai tempi della Guerra Fredda e che hanno rappresentato per la Russia l’unica possibilità di mantenere il controllo dello sbocco sul Mar Mediterraneo grazie alla base navale di Tartus. L’intervento russo risale al 30 settembre 2015, quando il bombardamento ordinato e giustificato da Putin come una lotta al terrorismo stravolge le sorti del territorio siriano, ai tempi controllato per la maggior parte dai gruppi ribelli e dallo Stato Islamico, andando in aiuto del regime di Assad, che invece viveva uno dei suoi peggiori momenti per cui molti lo davano per spacciato.
D’altra parte, invece le milizie ribelli vengono finanziate dal governo turco, il cui obiettivo è in realtà combattere due entità: sia il regime di Assad a ovest, in modo tale da poter instaurare un governo islamista sunnita alleato della Turchia, sia i curdi siriani nel nord accusati di essere strettamente legati ai curdi turchi del PKK, il Partito del Lavoratori del Kurdistan riconosciuto come gruppo terroristico dalla Turchia.
La crisi umanitaria e il flusso migratorio verso l’Europa utilizzato come minaccia dalla Turchia
Idlib, in veste di ultimo territorio fuori dal controllo del regime, ospita tre milioni di civili, ma i bombardamenti a tappeto che investono la città non risparmiano nemmeno gli edifici in cui questi ultimi si rifugiati: dai risultati emersi sono 22 le scuole rase al suolo dall’inizio dell’anno, alcune delle quali in funzione causando la morte di maestre e bambini, e altre fortunatamente vuote, mentre ammontano a 50 le strutture sanitarie che sono state costrette a chiudere a causa dei bombardamenti o dello svuotamento progressivo della città.
La strategia condotta dal regime è la stessa di quella utilizzata nella battaglia di Aleppo e definita dal New York Times “starve-or-submit”: rendere la vita intollerabile e la morte probabile, aprire una via di fuga oppure offrire un accordo a coloro che decidono di andar via o di arrendersi facendo in modo che se ne vadano tutti, uno ad uno, uccidere chiunque resti.
Secondo le stime dell’Uhncr, l’agenzia Onu per i rifugiati, l’offensiva da gennaio a oggi ha provocato la morte di 298 civili, mentre un milione di persone è stata costretta a lasciare il Paese. L’emigrazione rappresenta sicuramente l’unica possibilità di sopravvivenza per la popolazione siriana, ma anche un problema rilevante per l’Unione Europea, ed è per questo motivo che nel marzo 2016 la Turchia e l’UE hanno firmato quello che viene definito accordo storico, al fine di ridurre drasticamente il numero degli attraversamenti attraverso la Grecia in cambio della richiesta turca di una serie di misure volte a facilitare il soggiorno dei suoi cittadini sul suolo europeo che consistevano nell’erogazione di 3,6 miliardi.
Ma in seguito all’uccisione di 36 soldati turchi a causa di un raid nel nord della Siria, il 27 febbraio Erdogan ha dichiarato che non impedire più ai migranti di raggiungere l’Europa via terra o via mare, in quanto l’onere era troppo pesante da sopportare per un paese in assenza di un supporto più concreto e sostanziale da parte della NATO, più volte richiesto dal governo turco senza successo. In molti hanno interpretato la decisione del leader turco come un modo per imporre i propri interessi, ottenendo sia un aiuto in Siria che chiedendo più soldi all’Europa.
I profughi siriani si sono ritrovati dunque spinti dalla Turchia verso l’Europa, ma al contempo respinti dalla Grecia, la cui reazione è stata quella di aumentare i controlli sulle frontiere marittime e terrestri e di sospendere le richieste di asilo per coloro che entrano illegalmente nel Paese. L’agenzia di stampa turca ha infatti riferito che erano circa 300 i migranti che l’altra notte si muovevano verso nord-ovest, al confine tra la Turchia e la Grecia oggetto dell’attacco della polizia greca, che ha fatto ricorso ai gas lacrimogeni per respingere i migranti. E’ stata dura la risposta del Unhcr, che ha condannato le azioni dei soldati greci, riconoscendo il diritto a tutti gli Stati di controllare i propri confini ma la contempo ricordando il dovere degli stessi di farlo astenendosi dall’uso eccessivo e sproporzionato della forza.
Nel frattempo, giovedì 5 marzo, il presidente russo Putin e quello turco Erdogan hanno dichiarato dopo una riunione tenutosi a Mosca durata oltre 5 ore, di aver raggiunto un accordo che sancisce la cessazione del fuoco a Idlib dalla mezzanotte del giorno stesso, monitorato dalle forze turche.