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Dal Corona virus a Patrick Zaky: i poster di Laika sono l’antidoto contro la paura

“Picché nuope, into paìs, simo puro u comunità, o nuope? No se puote no se puote abire paura de tuotto… paura de tuooottooo. No se pute”.  Aveva ragione Mattia Torre in quello che provava a dirci, nei suoi dialoghi di “4 5 6” divenuto successivamente uno spettacolo teatrale e serie televisiva,. Non possiamo aver paura di tutto, non in una comunità.  L’arte è dimostrazione della realtà, più o meno amplificata. Ci pone di fronte ad una verità da noi stessi mascherata, coperta a volte proprio per paura. Come il timore verso la comunità cinese in seguito all’epidemia del Corona virus  (o, scientificamente parlando, SARS-CoV-2). Una ghettizzazione verso un intero popolo, isolato e messo in quarantena ideologica anche senza aver alcun sintomo. L’unica responsabilità è quella di essere connazionali di coloro che hanno contratto la malattia. Ristoranti cinesi vuoti, esercizi commerciali svuotati: il tutto dovuto alla paura di essere contagiati. Non siamo più nel campo della più che giustificata prevenzione, ma in quello della discriminazione che ha coinvolto non solo la comunità cinese ma quella asiatica in generale. Fare di tutt’erba un fascio, quindi, senza preoccuparsi di sapere se quella persona sia realmente stata in Cina o provenga dalla città focolaio di Wuhan, dove l’epidemia ha avuto la sua origine. 

Per questo, come al solito, ci ha pensato l’arte a farci riflettere sulle nostre azioni con un poster attaccato su un muro del quartiere Esquilino di Roma, dietro Piazza Vittorio, uno dei luoghi dove le nazioni di tutto il mondo si incontrano e si mescolano tra loro. L’artista in questione è “l’attacchina” capitolina Laika. Sì, si fa chiamare così. Attacchina o street artist, ma il nome non è importante. Si era già fatta conoscere in passato per alcuni poster su Salvini e su De Rossi, nel momento del suo addio alla Roma. Ma non solo: uno dei più significativi rimane, a modesto parere di chi scrive, quello dedicato al fotografo italiano del cinema per eccellenza, Pietro Coccia, lasciato in consegna da Laika all’ultimo Festival del Cinema di Roma. Il poster all’Esquilino, invece, assume un significato molto più generale. Non è solamente in difesa della comunità cinese, che in questi giorni ha dovuto subire diversi attacchi insensati, ma si riferisce alla paura che ci logora da dentro. “Un’epidemia di ignoranza”, scrive la street artist. E tant’è. Come abbiamo paura dell’immigrato che ci ruba il lavoro e ci porta malattie, adesso l’attenzione (negativa) è verso il cinese, anche se stabilmente nel nostro paese da anni. Come Sonia, la ristoratrice cinese di nascita e adottata da Roma, resa nota per il suo locale in via Bizio, vicino al mercato rionale dove è comparso il poster. E quel disegno raffigurava proprio lei, con una mascherina e un piatto di riso in mano. Come a invogliare le persone a non abbandonare le proprie abitudini per paura, anche quando si viene rassicurati. 

Rassicurazioni, invece, non ne abbiamo per quel che riguarda Patrick George Zaky, lo studente egiziano che frequentava un master all’Università di Bologna attualmente in carcere in Egitto e sottoposto a torture. Il suo arresto è stato motivato, a detta delle autorità egiziane, dalla sua attività di propaganda sovversiva. Durante gli interrogatori, gli è stato chiesto del suo rapporto con l’Italia e con Giulio Regeni, lo studente italiano morto sempre in Egitto nel 2016 e del quale, ancora, non si conoscono le motivazioni della sua morte. Qui la paura è naturale e legittima. E anche questa volta a tenere viva l’attenzione sul giovane studente è stata Laika, con un altro poster apparso in via Salaria a Roma, a due passi dall’ambasciata egiziana. Nel disegno, Giulio Regeni tranquillizza Patrick con una pacca sulla spalla: “Stavolta, andrà tutto bene”, gli dice. Il poster è stato tolto, come facilmente prevedibile. “Faceva paura a qualcuno”, dice Laika. Ma l’attenzione ormai è stata alzata ed è vigile. Nella notte tra il 18 e il 19 febbraio scorso, Laika ha voluto dimostrare nuovamente come la censura non provochi che l’opposto di quello che tenta di raggiungere: più si cerca di porre un velo per oscurare quello che sta accadendo a Patrick, più quello stesso velo vorrà essere alzato da sempre più persone. “Ho voluto rappresentare il momento esatto dello strappo del poster ad opera del misterioso qualcuno, per farglielo rivivere. Solamente che dietro a quell’immagine non c’è un vuoto, ma un mare di persone che fa sentire la sua voce per la liberazione di Patrick. Ci siamo tutti noi”.

L’arte può arrivare più lontano della politica e può essere anche più incisiva di questa. Arriva diretta, senza parlare. E, questa volta, ci chiede di non avere paura: sia nei confronti della comunità cinese sia per Zaky. Perché stavolta, davvero, deve andare tutto bene. 

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