Economia

Autoritarismo digitale e capitalismo della sorveglianza: il mondo (distopico) che ci attende

Il mondo non è mai stato così controllato e mai lo sarà stato così poco

L’emergenza coronavirus sta portando molti governi a valutare il modello delle “tre T”: trace, test e treat (traccia, testa e tratta), meglio conosciuto come “modello sudcoreano”. Tale ricetta, infatti, ha permesso al Paese asiatico di conciliare il contenimento della pandemia con le esigenze di tenuta del sistema economico e sociale, evitando di imporre gravosi lockdown alla popolazione e alle attività industriali. Ma, non esiste modello sudcoreano senza tracciamento dei nostri spostamenti, e non può esistere suddetto tracciamento senza la (almeno parziale) violazione della privacy. Molti diranno che tale violazione è comunque preferibile rispetto alla compressione delle libertà fondamentali, come quella di circolazione e riunione, a cui stiamo assistendo da noi. Altri, invece, sosterranno che è un costo accettabile, a patto che soddisfi criteri di temporaneità, necessità e proporzionalità. 

Il seguente articolo non ambisce a rispondere a questi interrogativi etici; piuttosto si pone il fine di descrivere l’autoritarismo digitale e il capitalismo della sorveglianza come trend in spaventosa crescita, che verranno accelerati dall’attuale emergenza. 

Il mondo non è mai stato così controllato e mai lo sarà stato così poco.

L’autoritarismo digitale

L’autoritarismo digitale è quella forma di governo che utilizza internet e gli strumenti informatici per controllare la popolazione, indirizzare i comportamenti, manipolare le idee e garantire la stabilità interna del Paese. L’avvento dei social media e la diffusione delle nuove tecnologie rappresentano un caso scuola di “eterogenesi dei fini”: convinzione diffusa era che il web sarebbe stato una “forza democratizzante”, in grado di accrescere il potere nelle mani dei singoli individui, rendendo il mondo più orizzontale e indebolendo le gerarchie consolidate. Sebbene in tale visione ci sia indubbiamente del vero – basti pensare allo scoppio delle Primavere Arabe – chi scrive è convinto che la storia giudicherà le nuove tecnologie come eccezionali strumenti di centralizzazione e verticalizzazione del potere, non di uguaglianza e democrazia. Infatti, le innovazioni prodotte dall’Internet delle cose (IoT) e dall’Intelligenza artificiale (AI) permettono di sorvegliare la popolazione a costi estremamente inferiori rispetto al passato, quando il controllo poteva essere assicurato solo dalla componente umana sul campo. 

La sorveglianza in Cina e Occidente

Il sistema di credito sociale cinese rappresenta una moderna forma di controllo e indirizzamento dei comportamenti individuali. Sostanzialmente funziona così: io, Stato, monitoro come ti comporti tu, individuo, e se i tuoi atteggiamenti sono conformi alle nostre norme ed ai nostri codici. Se sei un cittadino esemplare, ottieni degli incentivi; se non lo sei, ricevi pesanti sanzioni o penalizzazioni. Ad esempio, nel 2018, secondo il National Public Credit Information Center, 23 milioni di cinesi non hanno potuto acquistare biglietti di aerei o treni a causa del loro basso punteggio social. Come affermato da Fabio Vanorio in un’analisi per StartMag, “l’obiettivo finale del Governo cinese è quello di ispirare la collettività ad un ‘Sincerity Management Model’, dunque ‘permettendo a chi è affidabile di vagare ovunque sotto il cielo, rendendo difficile per chi è stato screditato di fare un solo passo’”.

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Sistemi di questo genere non caratterizzano solamente la dittatura cinese: la sorveglianza dei social media è ormai molto diffusa in Occidente a causa delle politiche della Silicon Valley ed alle presunte esigenze di sicurezza nazionale dell’intelligence statunitense. Il caso Snowden ha svelato il vaso di pandora dello spionaggio di massa operato dai servizi segreti americani ai danni del resto del mondo, ma nella presente analisi ci focalizzeremo maggiormente sulla sorveglianza condotta da aziende private. Tutti noi, come ben sappiamo, siamo profilati e abbiamo degli score che si basano sul nostro comportamento social. Tuttavia, poche volte si riflette sull’esito che questi score possono o potrebbero avere nella nostra vita di tutti i giorni: ad esempio lo scorso anno il Dipartimento dei Servizi finanziari dello Stato di New York ha annunciato che le compagnie di assicurazione sulla vita possono basare i premi anche su ciò che riscontrano nei post sui social media dei loro assicurati. 

Siamo nell’ambito di quello che Soshuna Zuboff ha chiamato il “capitalismo della sorveglianza”, e che analizzeremo di seguito.

Il capitalismo della sorveglianza e i rischi per la libertà

Il capitalismo della sorveglianza, nelle parole della docente di Harvard e autrice del bestseller pubblicato in Italia da Luiss University Press (Zuboff S., Il capitalismo della sorveglianza, 2019,), è “un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita”. È il capitalismo di Google, Facebook, Amazon e Microsoft: i cosiddetti Big Tech Giants. È anch’esso una forma di autoritarismo digitale, ma a differenza di ciò che accade in Cina esso è in primo luogo in mano ai privati e non ha ancora raggiunto i livelli di centralizzazione e pervasività presenti nell’Impero del Centro. 

Il surplus comportamentale è la materia prima dei capitalisti digitali; permette loro di anticipare i trend futuri e di orientarli in proprio favore. Google è diventato ciò che conosciamo soprattutto grazie alla sua capacità di trasformare i “detriti di internet”, ovvero tutte le nostre ricerche non andate a buon fine, in informazioni utili per capire i nostri gusti e desideri, da monetizzare attraverso la pubblicità. Le radici del capitalismo della sorveglianza risalgono ad un anno preciso: il 2002, anno in cui Google inventò il targeted advertising, ovvero la pubblicità mirata. Io che utilizzo Google non sono quindi più il cliente del servizio, ma sono la materia prima: i veri clienti sono le aziende pubblicitarie. Facebook, monitorando i nostri post utilizzando degli algoritmi, può capire quando ci sentiamo stressati, nervosi o ansiosi. Incrociando il nostro stato emotivo con contenuti appropriati, Zuckerberg è in grado di massimizzare il suo profitto dando all’utente il “confidence boost” richiesto. Questo modello, diventato sempre più comune, incentiva una gara selvaggia il cui fine ultimo è accumulare sempre più informazioni sull’esperienza umana privata degli individui, a scapito di ogni considerazione sulla privacy di ciascuno di noi. 

Un’obiezione classica è la seguente: io non ho nulla da nascondere e, se i miei dati personali servono a rendere il servizio migliore, allora meglio così. 

Questa argomentazione trascura lo stretto legame che è presente tra la privacy e l’autonomia individuale: senza privacy non siamo più autonomi. E senza autonomia non può esserci né libertà né democrazia. L’obiettivo dei capitalisti della sorveglianza e degli autocrati digitali è quello di automatizzarci, renderci prevedibili e facilmente manipolabili. In gioco c’è il libero arbitrio, non un dettaglio di poco conto. 

Il coronavirus come acceleratore di trend in corso

La pandemia sta svegliando alcuni Paesi (come l’Italia) dal torpore tecnologico in cui si trovano e sta ricordando ad altri della potenza degli strumenti di cui dispongono. Come precisato nell’introduzione, obiettivo di questo articolo non è sciogliere il dilemma etico sulla giustezza o meno di certe violazioni della privacy; rileva invece riflettere sul domani che ci aspetta, in maniera analitica e non ideologica. 

La diffusione dell’Internet delle cose è un trend difficilmente arrestabile, che cambierà la conformazione delle nostre case, delle nostre città, delle nostre strade e dei locali che frequenteremo. I sensori diventeranno sempre più i nostri compagni di viaggio, capaci di rilevare i nostri bisogni e di soddisfare le nostre necessità con il minimo sforzo. L’interazione tra essi guiderà le nostre auto in una direzione piuttosto che un’altra, gestirà il traffico, allocherà in modo più ottimale le risorse e le gestirà più efficientemente. Lo sviluppo di tecnologie di contrasto al coronavirus non fanno altro che accelerare l’adozione di sistemi di intelligenza artificiale, tracciamento e riconoscimento facciale. L’azienda nordamericana Draganfly sta, ad esempio, realizzando dei “droni pandemici” in grado di scansionare la temperatura individuale, i battiti cardiaci, la tosse e la pressione sanguigna. Ma dietro questo velo di modernità ideale si celano numerose vulnerabilità e rischi: l’abolizione della distinzione tra vita privata e pubblica; la concentrazione di una infinita mole di dati sensibili nelle mani di un gruppo ristretto di persone o di Stati; la sensazione di una sorveglianza sempre più ubiqua, alla quale è impossibile sfuggire; il progressivo approfondirsi di una diseguaglianza epistemica tra chi possiede tutti questi dati e chi li fornisce passivamente, senza poterne determinare le condizioni di utilizzo. 

Riflessioni finali su un mondo che corre troppo veloce

Il Wall Street Journal ha affermato che il “contratto sociale digitale” tra singoli individui, giganti del web e governi sta cambiando sotto i nostri occhi. Ciò che ora viene accettato in virtù di una condizione emergenziale potrebbe diventare la prassi anche un domani, a causa del furbo e diabolico trade-off che segue lo schema seguente: rinuncia ad un pochino della tua privacy e avrai un servizio migliore (ad esempio la tua salute sarà meglio tutelata; arriverai più velocemente al punto B, ecc.). In poche parole, l’autoritarismo digitale ed il capitalismo della sorveglianza sfruttano la nostra fretta, la nostra impazienza, la nostra ansia di avere tutto e subito: basti pensare ai cookies ed alle illeggibili e lunghissime policy sulla privacy. Siamo noi che in parte gli spianiamo la strada e appaghiamo la loro fame di surplus comportamentale. Stiamo vivendo una sorta di patto di Faust del ventunesimo secolo: ci risulta quasi impossibile sottrarci da tale legame, ma il prezzo da pagare potrebbe essere altissimo. 

L’inquietante sensazione è che il mondo corra ad una velocità troppo elevata per potersi realmente preoccupare di diritti, libertà, privacy e cose di questo genere. La stabilità della Guerra Fredda e la hybris degli anni Novanta sono reliquie del passato. La congiuntura storica favorevole ed il consenso all’esproprio sono le due ragioni fondamentali per capire il successo di questi modelli.  Nelle accelerazioni della storia si deve continuare ad accelerare per restare al passo, sebbene non si conosca bene l’approdo finale: in ciò risiedono caos e opportunità del momento che stiamo vivendo. 

George Bernard Shaw diceva che “la libertà significa responsabilità: ecco perché molti la temono”. Gli anni che ci attendono definiranno il nostro futuro digitale e, tornando alla Zuboff, saremo “noi a creare un futuro digitale migliore, o sarà lui a rendere noi peggiori?”. 

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