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Srebrenica: non dimentichiamoci il genocidio più veloce della storia

Nella sentenza unanime del 19 aprile del 2004 sul caso del Procuratore contro Krstić, la Camera d’appello del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), con sede all’Aja, decretò che il massacro degli abitanti maschi dell’enclave formata da Srebrenica costituì un genocidio – reato secondo il diritto internazionale. La sentenza è stata confermata anche dalla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) nel 2007. Il trasferimento forzato e l’abuso di donne, bambini e anziani bosniaci (tra i 25.000 e 30.000) che hanno accompagnato il massacro è risultato essere genocidio anch’esso.

Ma anche le Nazioni Unite (ONU) e i suoi sostenitori occidentali hanno accettato una parte della colpa per non aver protetto uomini, donne e bambini bosniaci a Srebrenica, che nel 1993 lo stesso  Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva formalmente designato come “zona sicura”. In una revisione interna critica nel 1999, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha scritto: “Attraverso l’errore, il giudizio errato e l’incapacità di riconoscere la portata del male che ci sta di fronte, non siamo riusciti a fare la nostra parte per aiutare a salvare il popolo di Srebrenica dalla campagna serba [bosniaca] di omicidi di massa”.

Il contesto: la Guerra Bosniaca

Srebrenica è una città musulmana situata in una regione a maggioranza serba della Bosnia. I sanguinosi e violenti scontri nascono nel 1992, nel quadro della Guerra Bosniaca, quando l’ex Jugoslavia inizia a disintegrarsi e la Bosnia ed Erzegovina, insieme a diversi altri stati, dichiara l’indipendenza in seguito ad un referendum. Il conflitto durerà fino al 1995, quando verrà imposto un cessate il fuoco tra i tre gruppi etnici presenti sul territorio (serbi, bosniaci e croati), grazie soprattutto all’intervento decisivo dei paesi occidentali e della NATO durante la negoziazione dei trattati di Dayton. 

Il 3 marzo del ’92 l’indipendenza viene ufficializzata dal Presidente Izetbegovic e, quando il 7 aprile viene riconosciuta dagli USA, le forze paramilitari e le unità serbe bosniache dell’esercito jugoslavo iniziano a sparare su Sarajevo e a bombardare la città, appoggiate dal governo serbo di Slobodan Milosevic. L’obiettivo era quello di ottenere l’annessione alla Serbia della loro regione e prendere il definitivo controllo di un blocco di territorio della Bosnia ed Erzegovina orientale. Lo scopo era creare un territorio omogeneo, dove abitassero soltanto serbi e che perciò sarebbe stato facile da annettere alla adiacente Repubblica Serba una volta arrivati al tavolo delle trattative. Così inizia, dunque, il processo cosiddetto di “pulizia etnica”, principalmente perpetuato dai serbi, autori responsabili dell’espulsione e dell’uccisione di numerose vittime bosniache e croate. anche nei territori a maggioranza serba, le comunità musulmane (tutte di confessione sunnita) subirono gli attacchi delle milizie: interi villaggi vennero distrutti e le persone espulse dalle loro comunità.

Dopo sole sei settimane due terzi del territorio bosniaco sono sotto il controllo serbo di Ratko Mladic, fatta eccezione per Srebrenica che viene definita dall’ICTY come “un’isola vulnerabile nel territorio controllato dai serbi”. 

Durante questo periodo, le forze dell’esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina (ARBIH) al comando di Naser Orić usarono Srebrenica come terreno di sosta per attaccare i vicini villaggi serbi, provocando molte vittime: come nel 1993, quando il villaggio di Kravica fu attaccato da ARBIH e provocò numerose vittime civili serbe. Le azioni compiute dall’ARBIH sotto il comando di Naser Orić furono viste come un catalizzatore di ciò che accadde a Srebrenica nel 1995, almeno secondo la testimonianza del generale Philippe Morillon nella sessione dell’ICTY del 12 febbraio 2004.

L’assedio e la safe zone 

Nel 1993 Srebrenica è in condizioni d’assedio: sovraffollata e quasi senza acqua corrente, a causa della distruzione delle riserve idriche della città da parte delle forze serbe, situazione che costrinse i civili ad affidarsi a generatori di fortuna per l’elettricità. Posta nel mezzo degli scontri feroci che continuavano a susseguirsi, Srebrenica venne indotta a una resa per fame, oltre alla mancanza di risorse essenziali come farmaci e medicine. Le necessità di base erano fuori portata per molte persone a Srebrenica principalmente a causa delle azioni di Orić, che infatti iniziò  a consolidare sempre maggiore potere portando  i suoi uomini a raccogliere e sottrarre cibo, carburante, sigarette e denaro inviato da agenzie di aiuto straniere per sostenere gli orfani musulmani. 

A questo punto si rende dunque necessaria una demilitarizzazione, che viene eseguita sotto il controllo delle Nazioni Unite che definiscono la ARBIH a Srebrenica come “capi di bande criminali, protettori e mercenari neri”. 

Nel quarto punto della Risoluzione 819 del 16 aprile 1993, le Nazioni Unite decisero di incrementare la propria presenza a Srebrenica e nei territori circostanti che un mese dopo venivano istituiti “safe zone”. L’accordo – che non sarà rispettato da nessuna delle parti – prevedeva che la città sarebbe dovuta essere risparmiata e libera da qualsiasi attacco armato, con l’impegno dei caschi blu di fornire aiuti umanitari e difesa delle zone protette, utilizzando i soldati olandesi della forza di protezione dell’Onu. 

1995: il massacro 

Nel marzo 1995 Radovan Karadžić, presidente dell’autoproclamata Repubblica autonoma Srpska (Repubblica serba bosniaca ), ha diretto le sue forze militari a “creare una situazione insopportabile di totale insicurezza senza alcuna speranza di ulteriore sopravvivenza o vita per gli abitanti di Srebrenica”. A maggio un cordone di soldati serbi bosniaci aveva imposto un embargo sul cibo e su altre forniture che avevano provocato la fuga della maggior parte dei combattenti bosniaci della città nonché messo in difficoltà le forze dell’ONU che iniziarono ad essere pericolosamente a corto di cibo, medicine, munizioni e carburante. 

Alla fine di giugno, il comando militare serbo bosniaco ordinò formalmente l’operazione, che culminò nel massacro dell’11 luglio 1995: i militari capeggiati da Ratko Mladić (il “macellaio dei Balcani”) riuscirono ad entrare nella città e mentre rassicuravano i civili che nulla sarebbe accaduto loro e che sarebbero stati evacuati “polako, polako” (ovvero lentamente), tutti gli uomini dai 12 ai 77 anni vennero allontanati e separati dalle famiglie con la scusa di dover essere interrogati perché sospettati di essere dei miliziani. La realtà ero però un’altra: in pochi giorni sparirono – uccisi – migliaia di uomini senza alcuna opposizione particolare dei caschi blu olandesi presenti a Srebrenica. In meno di tre giorni le esecuzioni si consumarono in maniera precisa e metodica: gli uomini venivano portati in complessi abbandonati, con le mani e i piedi legati dietro la schiena, e senza scarpe per assicurarsi che non scappassero. Dopodiché vennero fatti salire su grandi camion per poi essere trasportati fuori dalle aree abitate, messi in fila e uccisi con un colpo alla testa. I corpi gettati in luoghi lontani difficilmente raggiungibili. 

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