Con il CHIPS for America Act, gli Usa mirano a diminuire la dipendenza dalla Cina e dall’Asia e a rilanciare l’industria nazionale mentre con l’EU Chips Act la Ue mira a un regime di concorrenza eccezionale per soddisfare le esigenze del settore. Una panoramica sulla risposta occidentale alla crisi dei semiconduttori.
Il tema dei semiconduttori non era mai arrivato al pubblico in modo così pervasivo come da due anni a questa parte. Il problema del cosiddetto semiconductor crunch è ormai noto a chiunque si informi quotidianamente.
Questa crisi, innescata dalla pandemia di Covid-19 e i conseguenti lockdown che ne sono derivati, ha sconvolto le catene di produzione mondiali, che si sono ritrovate a dover gestire problemi logistici e di approvvigionamento che prima si davano per scontati. Se, ante Covid, eravamo abituati a poter comprare auto, telefoni, computer o poter installare un impianto fotovoltaico sul tetto di casa in tempi più o meno ridotti, ora non possiamo più soddisfare questi bisogni in modo così celere.
La particolarità della supply chain dei chip risiede nella sua frammentazione a livello globale. Risulta perciò normale che ogni Stato implicato in tale catena di produzione, “traumatizzato” dallo shortage causato dalla pandemia, cerchi ora di accaparrarsi una fetta sempre più grande del mercato, causando non poche ripercussioni a livello geopolitico. Un tale shock endogeno ha provocato una serie di reazioni normative.
La sfida che queste prescrizioni devono affrontare risiede nell’approcciare un problema che ha ripercussioni nel breve periodo senza accantonare una visione di lungo termine necessaria per una politica industriale di successo.
La supply chain dei semiconduttori e le sue caratteristiche
Come già accennato, la catena di produzione dei chip ha un elevato tasso di specializzazione geografica. Infatti, uno studio condotto da Accenture in collaborazione con la Global Semiconductor Alliance ha dimostrato che un chip attraversi circa 70 volte i confini nazionali prima di arrivare al consumatore sotto forma di prodotto finale[1] delineando così una catena di produzione altamente vulnerabile a shock esterni. Tutte queste interconnessioni creano giochi di forza a livello internazionale e la conseguente necessità di gestire dipendenze strategiche da parte degli Stati al fine di aumentare la resilienza di una supply chain fondamentale come quella dei semiconduttori. Di fatto, per assicurarsi di non rimanere a corto di chip non basta interiorizzare la produzione poiché la catena di produzione prevede passaggi intermedi che vanno dalla ricerca e sviluppo al design fino al packaging. In questo contesto, la necessità di economie di scala ha dato forma a una catena di fornitura globale altamente specializzata, in cui diverse regioni del mondo svolgono ruoli diversi in base ai loro vantaggi comparati.
Inoltre, negli ultimi decenni, la produzione di chip si è spostata dalle sue tradizionali roccaforti. Nel 1990, la produzione di semiconduttori era controllata da Giappone, Europa e Stati Uniti. Tuttavia, con l’ingresso nel mercato di Corea del Sud, Taiwan e infine Cina, i tre originali centri di produzione si sono ridotti a una quota di mercato congiunta di circa 35% nel 2020 e si prevede che la tendenza al ribasso continui[2].
In un contesto tale, tutti gli Stati coinvolti nella supply chain dei chip si sono mobilitati al fine di varare misure economico-finanziarie per sostenere ed aumentare la propria porzione di mercato. In particolare, in questa sede volgeremo lo sguardo alla risposta 15occidentale alla crisi dei semiconduttori, con un focus specifico sullo US CHIPS Act e sull’EU Chips Act, le loro specificità, somiglianze e punti deboli.
Il CHIPS for America Act
Per poter comprendere a fondo il CHIPS for America Act, il cui nome è scritto in maiuscolo perché si tratta di un acronimo (Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductor), è importante inquadrare il contesto in cui si colloca. Esso, infatti, non può essere analizzato come una mera misura per affrontare una questione di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti, quale lo shortage causato dalla pandemia, ma piuttosto come un atto che si inserisce nel più ampio contesto della guerra commerciale tra USA e Cina.
Negli ultimi decenni molte aziende statunitensi di semiconduttori quali Qualcomm o Nvidia hanno adottato un modello “fabless“. Le tre fasi alla base della produzione dei chip possono avvenire in un’unica azienda – un produttore di dispositivi integrati (IDM) che vende il chip – o in aziende separate, dove un’azienda fabless progetta e vende il chip e acquista servizi di fabbricazione da una foundry e servizi di assemblaggio, test e imballaggio (ATP) da un’azienda di assemblaggio e test di semiconduttori in outsourcing (OSAT)[3]. Perciò le fabless statunitensi hanno esternalizzando la produzione principalmente in Asia orientale, al punto che la sola Taiwan detiene circa il 90% della produzione di chip di grandi aziende tecnologiche statunitensi, tra cui Apple, Nvidia, Google e altre[4].
L’amministrazione Biden sta perciò cercando sia di diminuire la dipendenza dalla Cina e dall’Asia sia di rilanciare l’industria manifatturiera nazionale dei semiconduttori attraverso il decoupling strategico, il reshoring e il ringfencing[1], inducendo, tra le altre cose, diverse aziende a costruire impianti di produzione negli Stati Uniti. Più in generale, il CHIPS and Science Act prevede 52,7 miliardi di dollari per la ricerca, lo sviluppo, la produzione e l’aumento della forza lavoro nel settore dei semiconduttori americani. Nello specifico il CHIPS Act alloca 39 miliardi di dollari di incentivi alla produzione, tra cui 2 miliardi di dollari per i settori dell’automotive e della difesa, 13,2 miliardi di dollari dedicata a ricerca e sviluppo e alla creazione di forza lavoro specializzata e 500 milioni di dollari per la sicurezza delle ICT a livello internazionale e per le attività della catena di approvvigionamento dei semiconduttori. Il provvedimento prevede anche un credito d’imposta del 25% per le spese di capitale per la produzione di semiconduttori e delle relative attrezzature. Un tale incentivo fiscale è una chiara manifestazione della volontà di tornare ad essere un leader nella supply chain dei semiconduttori da parte degli USA com’era trent’anni fa e anche un incentivo a catalizzare altre centinaia di miliardi di investimenti privati[5].
L’EU Chips Act
Sebbene il meccanismo di finanziamento delineato dal CHIPS for America Act e dal suo corrispettivo europeo prevedano entrambi massicci finanziamenti pubblici per attrarre le maggiori imprese del settore, essi divergono nella sostanza.
L’EU Chips Act rappresenta una vera eccezione nel panorama della politica industriale europea. Di fatto, lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori in Europa era incentivato fino al febbraio 2022 da classiche logiche di mercato unico aperto ed era limitato alla ricerca e sviluppo e poco incentrato sulla produzione. Con l’EU Chips Act la Commissione Europea ha sdoganato il tabù degli aiuti di Stato per un settore così strategico quale l’industria dei semiconduttori. Nonostante ciò, il meccanismo statunitense risulta essere molto più flessibile e diretto di quello europeo. Bisogna infatti ricordarsi che si tratta di provvedimenti emanati da due entità di natura molto diversa: uno stato sovrano ed indipendente da un lato e un organismo sovranazionale soggetto al principio di sussidiarietà dall’altro.
Il fulcro dell’EU Chips Act è la creazione di un regime di concorrenza eccezionale per soddisfare le esigenze del settore dei semiconduttori. La legge formula il nuovo concetto giuridico di impianto “first-of-a-kind” e come recita il testo, “la proposta è inoltre conforme alla recente comunicazione “una politica della concorrenza pronta a nuove sfide”, in cui la Commissione riconosce che potrebbe “vagliare l’ipotesi di approvare un sostegno pubblico atto a colmare le potenziali carenze di finanziamento nell’ecosistema dei semiconduttori, in particolare per l’apertura di impianti europei unici nel loro genere nell’Unione, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 3, TFUE”[6]. Dunque, tali progetti dovrebbero essere soggetti a forti garanzie per assicurare che gli aiuti siano necessari, appropriati e proporzionati, che le distorsioni indebite della concorrenza siano ridotte al minimo e che i benefici siano condivisi ampiamente e senza discriminazioni in tutta l’economia europea.
Nello specifico, il concetto di “first-of-a-kind”, e quindi di unicità, consente di approvare aiuti di Stato quando un impianto di produzione supera lo stato dell’arte dell’Unione, ad esempio in termini di nodo tecnologico, materiali (come l’utilizzo del carburo di silicio e del nitruro di gallio) e altre innovazioni di prodotto che possono offrire migliori prestazioni o nel caso di innovazioni di processo in grado di offrire migliori prestazioni energetiche e ambientali.
Il secondo concetto centrale del Chips Act è il “funding gap”, cioè il criterio chiave per ottenere l’approvazione della Commissione per un progetto di produzione industriale. Nel concreto, una volta che uno Stato membro ha stabilito un pacchetto di aiuti di Stato per sostenere un investimento industriale, dovrà dimostrare alla Commissione che il progetto non sarebbe commercialmente redditizio senza gli aiuti di Stato. Il divario deve essere misurato rispetto alla possibilità di produrre al di fuori dell’Europa, non in un altro Stato membro dell’UE e le risorse pubbliche possono coprire fino al 100% di un comprovato gap di finanziamento.
La legge sui chip rimuove dunque un importante ostacolo legale per consentire l’approvazione degli aiuti di Stato da parte dell’UE. Ai sensi dell’articolo 107 del TFUE, gli aiuti di Stato sarebbero incompatibili con il mercato interno poiché essi porterebbero ad una distorsione della concorrenza tra gli Stati membri, sebbene già esistessero eccezioni a questo divieto, si veda il settore della cantieristica navale. Tuttavia, lo schema first-of-a-kind/funding gap crea un problema di concorrenza intra europea. Alla fine, i progetti industriali saranno localizzati geograficamente in un solo Stato membro e gli Stati membri con i bilanci più consistenti saranno i primi ad attrarre investimenti privati grazie ai nuovi impianti costruiti con gli aiuti di Stato.
Le due strategie a confronto
Inoltre, se nello US Chips Act c’è un chiaro riferimento al target ovvero i cosiddetti legacy chip, semiconduttori meno sofisticati, fondamentali per l’industria automobilistica e della difesa, nell’EU Chips Act non vi è menzione di un target chiaro e preciso. Lo stanziamento statunitense è destinato a risolvere le strozzature di approvvigionamento a breve termine che fanno salire i prezzi delle automobili e rallentano la produzione di attrezzature militari. Al contrario, l’Unione vorrebbe diventare leader nella produzione di chip 2nm, i più tecnologicamente avanzati, invece di puntare sulle sue forze esistenti come il settore automobilistico (essendo inoltre l’Europa il primo importatore di chip per questo settore). Per l’automotive infatti vengono utilizzati chips di taglia superiore ai 90nm. Inoltre, all’interno dell’Unione vi è un tassello fondamentale per l’industria dei semiconduttori e in particolare del settore automobilistico: ASML. La produzione di semiconduttori, effettuata prevalentemente da TSMC, Samsung e Intel, si affida quasi interamente all’azienda olandese ASML per la fornitura di apparecchiature. ASML è il principale fornitore di macchine litografiche, che incidono i modelli nei materiali depositati sui wafer di silicio, detenendo persino il monopolio del sistema più avanzato, la litografia EUV. In generale, i Paesi Bassi giocano un ruolo piccolo ma indispensabile nella catena del valore dei semiconduttori, in cui le forniture olandesi di attrezzature per la produzione di semiconduttori costituiscono un importante punto di strozzatura. Inoltre, le industrie olandesi sono cruciali anche in mercati specifici, come NXP nel settore automobilistico, che produce chip essenziali per i sistemi avanzati di assistenza alla guida, la rete di bordo, la catena cinematica e per i dispositivi di sicurezza.
Oltre al settore target sarebbe opportuno focalizzarsi anche sul segmento della catena di produzione. L’America ha puntato principalmente sulla produzione sia per sopperire alla mancanza di chip ma anche (e principalmente) per allentare la dipendenza dalla Cina e da Taiwan e far fronte agli ingenti piani di investimenti che questi Paesi stanno mettendo in atto. Perciò, la nostalgia per quella leadership ormai persa che vedeva gli Stati Uniti come detentori del 37% della produzione mondiale di chip nel 1990, ha mosso il legislatore americano affinché facesse fronte all’attuale carenza di chip e alla posizione subordinata a livello geopolitico. In ogni caso, le nuove fabbriche finanziate dal CHIPS for America Act probabilmente non produrranno chip fino a molto tempo dopo la fine dell’attuale carenza. Le fabbriche di chip sono infatti grandi impianti industriali che richiedono anni di progettazione e costruzione prima di iniziare la produzione vera e propria. I semiconduttori prodotti nella mega-fabbrica che Intel sta progettando in Ohio – che si concentrerà su chip avanzati – potrebbero non finire nei dispositivi di consumo prima del 2026.
L’Europa dal canto suo dovrebbe invece puntare sui punti di forza già esistenti quali la ricerca e sviluppo. Tale segmento, alla base dell’intera catena del valore dei chip, oltre ad essere indispensabile per brevettare nuovi design è anche uno step meno costoso rispetto alla creazione di una fabbrica di chip, sebbene anch’esso sia un investimento i cui frutti non sono visibili nel breve termine. L’Europa però già vanta atenei prestigiosi che formano personale specializzato e talenti riconosciuti in tutto il mondo; la sfida risiede nel trattenere in Europa questo capitale umano. Storicamente, uno dei principali punti di forza dell’Europa è stata la ricerca in laboratorio e il mondo accademico, ma la produzione dei chip è avvenuta in impianti di fabbricazione di semiconduttori all’estero. Bisogna perciò avvicinare la ricerca e la produzione. Sfruttando alcuni dei più grandi talenti del mondo in Europa, si può tradurre l’attuale eccellenza della regione nella ricerca in innovazione industriale per i consumatori di tutto il mondo. Secondo le stime di Kearney, infatti, l’economia europea nel suo complesso registrerebbe un aumento del PIL tra i 77 e gli 85 miliardi di euro nel prossimo decennio solo grazie agli investimenti nei chip [8]. Perciò un aumento nella spesa in R&D accompagnata da programmi di ricerca a lungo termine nelle università potrebbe favorire un ecosistema di innovazione e aumentare l’expertise sulla scienza dei materiali e sui processi fisici e chimici al fine di migliorare la prossima generazione di chip in termini di prestazioni, efficienza o qualità.
Il raggiungimento dell’obiettivo posto dalla Commissione Europea, ossia raggiungere una quota di mercato pari al 20% entro il 2030, rappresenterebbe un vero successo dell’intervento pubblico per invertire una tendenza decennale al declino. Nel 2000, la quota di mercato globale dell’Europa era del 24%, nel 2021 era inferiore al 10%. Tuttavia, poiché la produzione mondiale di semiconduttori è destinata a raddoppiare entro il 2030, raggiungere gli obiettivi della Commissione significherebbe quadruplicare la produzione europea nello stesso arco di tempo, mentre negli ultimi 15 anni non è stata costruita nessuna nuova fabbrica e gli altri attori globali hanno fissato obiettivi altrettanto ambiziosi.
In generale, dunque, il piano statunitense sembrerebbe più realistico rispetto a quello europeo, che invece di puntare sui suoi punti di forza esistenti si pone obiettivi molto ambiziosi e probabilmente oltre la portata di un continente ancora troppo frammentato internamente per puntare su un obiettivo condiviso con quell’unità di intenti che sarebbe richiesta.
Conclusioni
Rafforzare la produzione nazionale è sicuramente uno step importante per creare catene di approvvigionamento più resilienti e affidabili a supporto di un’ampia gamma di tecnologie chiave nell’economia moderna. Allo stesso tempo però bisogna puntare su una solida collaborazione internazionale affinché gli ingenti sforzi finanziari non si trasformino in una guerra di sussidi che non sia in grado di concretizzarsi in un effettivo rinvigorimento delle supply chain. Per esempio, da un’approfondita mappatura della supply chain si può notare che sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea sono estremamente deboli nel cosiddetto back-end del processo di produzione dei semiconduttori, ossia il processo di assemblaggio, test e imballaggio (ATP). Queste funzioni sono state in gran parte esternalizzate in Asia orientale e meridionale, soprattutto per ottenere una produzione a basso costo. Se uno due paesi occidentali puntasse su tale settore si avrebbe da un lato una grossa diminuzione del tasso di dipendenza dalla Cina e dall’altro si potrebbe instaurare una forte partnership che andrebbe a coprire il mercato americano e quello europeo portando a notevoli profitti per entrambe le aree geografiche.
Nella riunione di Parigi del Trade Technology Council (TTC) tenutasi a maggio 2022, l’Europa e gli Stati Uniti si sono impegnati a evitare “gare di sovvenzioni”, poiché riconoscono il pericolo di una competizione di incentivi che spesso vede governi rivali fare offerte l’uno contro l’altro per gli investimenti locali. Tuttavia, sebbene entrambe le parti abbiano stabilito delle linee guida per razionalizzare l’uso dei sussidi per i chip, non è chiaro se le frizioni sui sussidi possano essere evitate. Va ricordato infatti che anche le regole dell’OMC sui sussidi, che i rappresentanti del TTC vedono come una sorta di ombrello normativo per governare lo sforzo congiunto UE-USA sui chip, si sono dimostrate ampiamente inefficaci come disciplina sui sussidi in passato.
Alla luce di ciò, è lecito chiedersi cosa ci sia di sbagliato nell’attuale sistema, che prevede importanti sussidi finanziari e fiscali per attirare la produzione high-tech, ma che è anche guidato dalla concorrenza geografica in termini di talenti, normative, eccellenza educativa e infrastrutture. Una maggiore cooperazione potrebbe anche essere ostacolata delle complessità e dell’unicità dell’industria, del ruolo chiave delle imprese nazionali in concorrenza tra loro e della difficoltà di assicurare la cooperazione sugli investimenti tra attori diversi con interessi altrettanto diversi. Ciò non significa però che la cooperazione non debba essere incoraggiata, ma è improbabile che si realizzi nella misura desiderata. In effetti, obiettivi modesti e raggiungibili potrebbero essere un’opzione migliore rispetto a obiettivi troppo ambiziosi e irraggiungibili.
Bibliografia
[1] Global Semiconductor Industry | Accenture
[2] Varas A. et al (2020). Government incentives and US competitiveness in semiconductor manufacturing. BCG & SIA.
[3] Khan S. M. et al (2021). The semiconductor supply chain: Assessing National Competitiveness. CSET. https://cset.georgetown.edu/publication/the-semiconductor-supply-chain/
[4] https://www.csis.org/analysis/look-chips-related-portions-chips
[5] https://www.investopedia.com/chips-and-science-act-6500333
[6] Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council establishing a framework of measures for strengthening Europe’s semiconductor ecosystem (Chips Act), n. COM(2022) 46 final, European Commission (2022).
[7] Teer J. & Bertolini M (2022), Reaching breaking point: The semiconductor and critical raw material ecosystem at a time of great power rivalry, The Hague Centre of Strategic Studies
[8] Aurik J. et al. (2022), How a leading-edge semiconductor ecosystem will positively impact European prosperity, Kearney
- Per decoupling strategico si intende rilocalizzare la produzione delle imprese statunitensi fuori dai territori Cinesi e Asiatici in generale. Simile a questo concetto è quello del reshoring, ossia riportare la produzione nel paese d’origine, gli Stati Uniti in questo caso, mentre il concetto di ringfencing si riferisce alla separazione finanziaria dei rami di un’attività per mitigare rischi sistemici e non che potrebbero danneggiarla.
Questo articolo è stato originariamente scritto e pubblicato su AgendaDigitale.eu