Economia

Risposte al COVID-19: un approccio comparato

Con uno tra i più elevati tassi di mortalità dovuti al COVID-19, l’Italia ha rappresentato per molti versi un modello da seguire in tutto il mondo ma, contemporaneamente, anche un esempio degli errori da non commettere. Abbiamo assistito attentamente dai divani delle nostre case (eccetto nel caso dei lavoratori essenziali) allo stravolgimento e ai cambiamenti che il virus ha imposto all’Italia, ma in che modo la diffusione del COVID-19 ha condizionato la democrazia e lo stato di diritto negli altri paesi del mondo? E quali sono state le loro risposte alla pandemia? Abbiamo provato ad esaminare il caso della Nuova Zelanda, la cui reazione al virus è per molti aspetti simile a quella italiana, nonostante l’incolmabile lontananza geografica e il fatto che l’Italia sia stato il primo paese dopo la Cina a dover combattere contro il coronavirus, al contrario della Nuova Zelanda, che è probabilmente uno fra gli ultimi. Successivamente abbiamo analizzato la dicotomia tra i governi neoliberali di Canada e USA e il sistema autocratico ungherese, rivelando numerose problematiche in entrambi i casi. 

Nuova Zelanda

Al contrario dell’Italia, la Nuova Zelanda, grazie anche alla sua posizione geografica nel mezzo del Pacifico, è stata una tra le ultime nazioni a subire la diffusione del virus, permettendole di modellare la propria risposta al COVID-19 sulla base delle esperienze pregresse delle altre nazioni. 

Uno degli elementi chiave della strategia del governo neozelandese, la cui logica somiglia a quella italiana delle tre fasi, è stato il rapido lancio di un quadro di livelli di allerta corrispondenti alla gamma di misure crescenti da aspettarsi in base ai più elevati livelli di rischio. Con un numero pari a 50 casi registrati nel paese, il Primo Ministro Jacinda Ardern annuncia tramite un discorso pubblico un livello di allarme due, per poi alzarlo al terzo livello dopo una sola settimana. Ancor prima dell’inizio del livello di allarme quattro, il Parlamento approva in sole 2 ore diverse misure immediate per rispondere all’emergenza economica che si sarebbe prospettata in seguito all’imposizione del lockdown, tra cui un pacchetto di supporto per le imprese di $12B.

Il livello quattro annunciato poco dopo consisteva nel completo lockdown del paese, effettuato sulla base di strati intrecciati di vari poteri ordinari e di emergenza. Innanzitutto, un primo strato giuridico è rappresentato dalla Epidemic Preparedness Act (2006), che ha consentito l’abilitazione dei medici ufficiali della sanità, degli agenti di polizia sanitaria e dei ministri ad utilizzare diversi poteri speciali emergenziali. Inoltre, la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale (da rinnovare ogni sette giorni) ha permesso alla protezione civile di coordinare la risposta su base nazionale, nonché al Primo Ministro di dispiegare vari poteri di direzione e di requisizione d’emergenza. 

Ma il cuore legale del lockdown è rappresentato da un potere antiquato che la legislazione sanitaria pubblica conferisce ai medici ufficiali della sanità: ovvero un ampio potere di ordinare varie azioni al fine di  combattere le malattie infettive. Dunque, in virtù dell’art.70 dell’Health Act (1956) sono stati chiusi i locali e vietati gli assembramenti ma, per permettere una maggiore applicabilità della legge, anche alla polizia sono stati concessi poteri indipendenti. Nel tentativo di conferire un maggiore grado di potere agli agenti in prima linea, è stato conferito loro il potere di ordinare alle persone di interrompere (o intraprendere) qualsiasi attività che possa causare o contribuire in modo sostanziale all’emergenza, pena l’arresto o l’azione penale. Se l’idea era quella di scoraggiare la violazione delle norme comportamentali, il risultato è stato però anche l’attribuzione di una forte discrezionalità nell’applicazione della legge affidata completamente all’arbitrarietà dei singoli agenti. 

L’ultimo, ma forse il più singolare elemento che caratterizza la risposta della Nuova Zelanda al COVID-19 non è uno strumento legale. Molta dell’efficacia del lockdown nel paese risiede infatti nei forti segnali della guida tenuta  dal Primo Ministro, che ha ripetutamente espresso alla popolazione l’urgenza “di fare la cosa giusta, scegliendo di rimanere in casa”. Il risultato è stato un forte consolidamento di norme di comportamento sociale diffusesi in tutto il paese, grazie soprattutto ai canali ufficiali del governo, come il sito creato ad hoc per il COVID-19, il gruppo whatsapp e i canali di interazione e informazione via radio e televisione. 

Infine, a garantire il ruolo dell’opposizione e per sostituire il consueto ruolo della Camera è stato istituito un Epidemic Response Committee per esaminare l’azione del governo. Si tratta di una commissione presieduta dal leader dell’opposizione che ha inoltre la maggioranza dell’opposizione tra i suoi 11 membri, cui viene provvisto il potere plenario di indagare sulla risposta del governo al Covid-19, e finora sembra essere stato un modo pragmatico e costruttivo per assicurare le responsabilità in assenza della seduta plenaria. 

USA e Canada

Gli Stati Uniti d’America e il Canada rappresentano due tra gli esempi che al tempo stesso sono tanto simili quanto diversi tra loro. Accomunati entrambi da un governo federale che non ha dichiarato (o, nel caso degli Stati Uniti, che non sembrava volesse dichiarare) lo stato di emergenza nazionale, le motivazioni che si celano dietro la stessa linea governativa sono ben diverse. Infatti, mentre Trump ha aspettato il 14 marzo per dichiarare l’emergenza nazionale con un numero di casi positivi al COVID-19 pari a 2000, il Canada mantiene saldamente la sua posizione, seppur costantemente discussa dal dibattito pubblico, sulla base di quelli che possiamo riassumere in quattro ordini di ragioni. Innanzitutto, la salute è una giurisdizione provinciale nel sistema federale canadese, e le province hanno usato la loro autorità statutaria per imporre stati di emergenza a livello provinciale che variano solo in piccoli dettagli. In secondo luogo, entrano in gioco fattori di ordine culturale secondo cui il sistema di salute pubblica sia così ben funzionante da essere ritenuto come sacrosanto, tanto che dall’inizio della pandemia molti dei premier provinciali – anche quelli considerati più vicini alla strategia comunicativa populista di Trump – sono stati affiancati da esperti, in molti casi veterani della risposta canadese alla SARS. Infine, se da una parte il Quarantine Act (2005) conferisce al governo ampi poteri di emergenza, dall’altra la struttura giuridica dell’Emergencies Act fa esitare il governo prima di proclamare l’emergenza nazionale, ispirandosi ai principi della Carta dei Diritti e delle Libertà e soprattutto alla lezione imparata nel 1970, quando il padre dell’attuale Primo Ministro invocò il War Measure Act per contrastare il violento gruppo secessionista del Québec nella “crisi di ottobre”, per mezzo del quale venne giustificata la detenzione inutile di quasi 500 persone.  

La risposta al COVID-19 degli USA, per quanto simile nella sostanza e nei contenuti, è in realtà molto diversa dall’esempio canadese. La totale mancanza (che si è poi rivelata successivamente tardiva) di misure di emergenza a livello federale negli Stati Uniti è dovuta unicamente alla discrezionalità delle decisioni del Presidente Trump, il quale per diverse settimane si è rifiutato di riconoscere la diffusione del contagio da COVID-19 come emergenza nazionale. In un periodo storico di grave crisi sanitaria, nel paese con uno tra i più alti numeri di persone non assicurate, a colmare il vuoto di leadership sono stati i governatori statali. Lo Stato di Washington, dove sono stati scoperti i primi casi di COVID-19, ha dichiarato l’emergenza il 29 febbraio, seguito ben presto dalla California, per arrivare a fine marzo ad un numero di stati ad aver dichiarato l’emergenza pari a 48 su 50. Anche il presidente e il segretario della Sanità e dei Servizi Umani hanno dichiarato l’emergenza a fine gennaio, ma nonostante la forte mobilitazione, le risposte all’emergenza sono state totalmente asimmetriche nelle diverse aree del paese, principalmente a causa delle enormi differenze dei poteri conferiti ai singoli stati. Inoltre, il messaggio di Trump secondo cui gli stati avrebbero dovuto provvedere da soli all’emergenza ha creato una spirale di competitività con l’unico risultato di aumentare i prezzi delle scarse forniture mediche come in un’asta d’arte, provocando l’arricchimento delle aziende private e l’indebitamento sempre più elevato degli Stati. 

La risposta americana alla pandemia avrebbe potuto essere decisamente più efficace se il Presidente l’avesse trattata come un’emergenza e avesse disposto dei poteri che la legge gli conferisce per contrastare la diffusione del virus. Sulla carta, Trump avrebbe avuto il potere di evocare una legge degli anni ‘50 (Defense Production Act, DPA), sulla base della quale avrebbe potuto ordinare alle aziende private la produzione di forniture per la sicurezza nazionale già a partire da gennaio, al contrario di farlo a fine marzo a sole due settimane dalla previsione del picco dei contagi. Quello che risulta realmente paradossale in questo caso, è la continua evocazione della stessa legge in situazioni assolutamente normali con l’unico scopo di eliminare i blocchi lungo la catena di approvvigionamento della difesa. È lo stesso New York Times a riportare che “il Dipartimento della Difesa stima di aver usato i poteri della legge 300.000 volte all’anno” durante l’amministrazione Trump. 

Ungheria 

Ma se gli americani e i canadesi possono, in larga misura, consolarsi all’idea che il governo non sia intenzionato a sfruttare l’attuale crisi per acquisire un maggiore  grado di potere, lo stesso non si può dire per i cittadini ungheresi. 

Quella del virus non è in realtà la prima emergenza nazionale che si trova a dover affrontare l’Ungheria in tempi recenti, in quanto il Primo Ministro Viktor Orbán, salito al potere nel 2010, ha motivato l’adozione nel 2011 della cosiddetta “costituzione per la gestione della crisi”, in risposta alla crisi finanziaria del 2008. Successivamente, l’emergenza è stata dichiarata a causa delle “migrazioni di massa”, nonostante il confine con la Serbia sia ermeticamente chiuso. Oggi lo stato di emergenza dichiarato è dovuto allo “stato di pericolo a causa della pandemia”, sulla base di un decreto che ha avuto un cosiddetto tramonto automatico decorsi 15 giorni senza l’autorizzazione parlamentare. Così il 23 marzo il governo ha presentato al Parlamento la legge sulla protezione contro il coronavirus, con la richiesta che il decreto rimanga in vigore. Quest’ultimo, approvato da una super maggioranza parlamentare, è stato definito dall’opinione pubblica ungherese “legge di abilitazione”, perché conferisce al governo il mandato parlamentare di governare per decreto senza una clausola di scadenza, dando pieni poteri al Primo Ministro, alla cui unica discrezionalità è dunque affidata la decisione su come rispondere alla crisi, ma soprattutto quando la crisi può essere considerata terminata. Inoltre, il decreto riduce ulteriormente i controlli sull’autorità dell’esecutivo, annulla le elezioni e i referendum e frena la restante stampa libera, criminalizzando l’ostruzione del controllo epidemiologico e la pubblicazione di fatti falsi o distorti che interferiscono con la protezione del pubblico. Anche i tribunali ordinari sono stati chiusi ancor prima delle scuole, il tutto giustificato dalla necessità di una risposta alla crisi che non sarebbe arrivata senza l’approvazione di questo decreto. 

Per concludere la nostra breve analisi, che prende in considerazione solo pochi esempi di risposta al virus, c’è sicuramente qualcosa di vero e comune per la maggior parte dei paesi del mondo: la pandemia targata COVID-19 può rappresentare un punto di svolta per tutti i sistemi politici, messi a dura prova, in primo luogo, dalla crisi sanitaria e successivamente da quella economica. In particolar modo, nel caso italiano il virus ha reso evidenti i problemi che caratterizzano la nostra Repubblica, rendendo sicuramente necessaria una riformulazione del sistema nel suo complesso con una prospettiva più a lungo termine, che tenga anche conto della possibilità, in futuro, di dover affrontare nuove emergenze. L’esempio dell’Ungheria, invece, ci insegna l’importanza di una costituzione rigida, mentre il Canada e gli Stati Uniti, come due facce della stessa medaglia, dimostrano l’importanza di una reazione omogenea e simmetrica nel paese, la cui esecuzione è al contempo decentralizzata, in modo tale da poter tenere in considerazione un più vasto ventaglio di esigenze. Infine, la Nuova Zelanda rappresenta l’esempio lampante del concetto democratico per eccellenza: la tutela dell’opposizione e il controllo sull’esecutivo, anche in stato di emergenza.  

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