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Infrastrutture di rete: comunicare per vivere

Telecomunicazioni tra mito e realtà

Settantatré anni fa, tre anni prima di inghiottire una quantità di sonnifero tale da non svegliarsi più, Cesare Pavese ci ricordava che il fascino dei miti, delle grandi narrazioni, è che trascendono in un certo senso il tempo, la storia, il reale. Un reale che in “un bel momento ci sembrerà di non averlo visto mai”1. Da umani fuggiamo la realtà, tramutando in sogni le nostre aspirazioni e in incubi le nostre paure, convincendoci che siano reali. È un riflesso automatico con conseguenze positive e negative in egual misura. Ma non importa. Ciò che conta in questa sede è la curiosità che essi suscitano a chi non li vive ma cerca di capirli. 

Tra i miti più interessanti ci sono quelli delle “abolizioni”, per la loro contraddizione. Narrazioni umane, troppo umane, che raccontano della scomparsa di una caratteristica altrettanto umana, come la storia, il conflitto, lo spazio. 

Il mito della connettività è senz’ombra di dubbio tra questi. Tra le tante fascinazioni che la tecnologia suscita, quella della sconfitta della spazialità resta la più suggestiva. Dal telegrafo a WhatsApp, l’illusione che i sistemi di comunicazione avessero abolito lo spazio e la dimensione fisica, almeno dal punto di vista politico, è rimasta a lungo manifestata nel dialogo pubblico. Per una serie di giustapposizioni legate tra loro da rapporti di causa che definire forzati è un eufemismo, l’idea che le telecomunicazioni avrebbero legato gli animi facendoci scoprire i vantaggi relativi della cooperazione reciproca e l’insensatezza dei conflitti, ha sempre accompagnato le rivoluzioni tecnologiche nei discorsi dei loro inventori e dei loro fruitori. “Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?” recitava un emozionante spot pubblicitario di Telecom nel 2004 che mostrava il discorso di pace tenuto da Mahatma Gandhi alla Conferenza delle relazioni interasiatiche veicolato attraverso televisione, cellulari, computer2.

Tuttavia, ciò che rappresenta un affascinante quanto necessario slancio riscattatore dell’innovazione non corrisponde, ahinoi, alla realtà dei fatti. Le tecnologie restano confinate nel dominio umano3, con tutte le sue contraddizioni. In maniera non diversa da ieri, le comunicazioni avvengono oggi grazie a ed attraverso delle infrastrutture non meno fisiche di strade, rotaie o onde del mare. La differenza con il presente, che ha favorito il mito della connettività, è la tangibilità delle stesse.

A questo punto una classificazione semantica appare necessaria per evitare confusione e sovrapposizione di termini e concetti. Il termine infrastruttura viene spesso distinto in una duplice declinazione economica e ingegneristica4 che in realtà si può risolvere nell’unica concettualizzazione della stessa come “capitale fisso sociale”, presupposto fondamentale di ogni altra attività socio-economica. L’infrastruttura connette e in un certo senso riguarda sempre il comunicare proprio perché lo permette. Connettendo diversi centri di informazione e produzione consente a questi ultimi di lavorare insieme, come la radice latina del verbo (cummunis) prevede. È chiaro in questo senso che, una volta esistente l’infrastruttura che lo permette, il processo di comunicazione derivi normalmente dalle reciproche necessità di collaborazione degli elementi all’interno di uno specifico sistema. In tal senso, ogni infrastruttura è “delle comunicazioni”. 

Tuttavia, il concetto si complica quando si parla di telecomunicazioni. Queste ultime si caratterizzano infatti proprio per la particolarità dell’infrastruttura e dell’interfaccia attraverso le quali vengono trasmesse. Le infrastrutture delle telecomunicazioni sono infatti quelle installazioni che permettono la fruizione della comunicazione attraverso le sue moderne interfacce, non più lettere o raccomandate ma telegrafi, telex, telefoni, fax, radio, televisioni, cellulari e computer. Queste infrastrutture sono cavi, ripetitori, antenne, data center, satelliti e torri, installazioni materiali assemblate da qualcuno e posizionate da qualcun altro da qualche parte, ma meno visibili delle loro omologhe passate.

L’importanza strategica delle infrastrutture

È proprio l’intrinseca fisicità dei moderni mezzi di comunicazione che li rende inevitabilmente sottoposti alle logiche conflittuali dell’umanità che “nessun pacifismo deve dimenticare o negare”, come ricorda Alessandro Baricco in un’affascinante postilla all’Iliade da lui commentata5. Il controllo (a scapito di altri) e il governo di un sistema di infrastrutture delle telecomunicazioni efficiente, sicuro e veloce rimane priorità assoluta dello Stato moderno. Non è un caso che le infrastrutture di rete vengano spesso annoverate tra quelle critiche, ossia quei sistemi vitali alla sopravvivenza dell’ordine costituito, funzionali alla sopravvivenza del sistema-paese inteso sia come i servizi essenziali da garantire ai cittadini, sia come la struttura che garantisce la sopravvivenza del tessuto industriale basato sul libero mercato6. La loro lapalissiana rilevanza strategica le rende dunque sempre vigilate dagli Stati, che in un modo o nell’altro cercano di assicurarne la distribuzione più vasta possibile, ovviando  ai fallimenti del mercato derivanti dalla non convenienza degli investimenti privati laddove il profitto non è garantito. 

L’importanza delle infrastrutture TLC, tuttavia, non si limita alla sola (seppur di indubbio valore per la tenuta del sistema-paese) garanzia di fruizione del servizio sul territorio nazionale figlia del welfare state, ma si declina anche e soprattutto in ambito strategico. Le reti di telecomunicazioni sono infatti materia di difesa e sicurezza nazionale proprio perché una compromissione del loro funzione danneggerebbe l’ordine costituito più di un approvvigionamento alimentare non indipendente, per esempio. Questo soprattutto dal momento che “le infrastrutture materiali sono rese più vulnerabili dalla loro dimensione digitale e dal potere della connettività”7. È pertanto interesse dei governi non solo trovarne l’organizzazione più efficiente, ma soprattutto difenderne l’integrità, etichettandole come “settori strategici”. L’ottimalità di un’infrastruttura di rete si valuta dunque con più misure a seconda degli obiettivi da perseguire: dev’essere estesa e accessibile a tutti, efficiente ed economica, sicura e resiliente. Compito dello Stato è tenere insieme i tasselli del mosaico rappresentati da questa gamma di obiettivi cercando di ridurre al minimo i conflitti tra gli stessi. Il rapporto tra sicurezza ed efficienza economica è infatti dialettico e non privo di aporie, com’è dimostrato dall’attuale dibattito sul 5G, dove alle considerazioni prettamente economiche di innovazione si affiancano quelle geopolitiche legate alla sicurezza, rendendo le scelte strategiche più disagevoli. Tuttavia, non sempre interesse securitario e dinamismo economico sono alternativi. Spesso l’innovazione trae propulsione proprio da interessi strategici e militari, oggettivazione indiscutibile della politica nazionale. Ciò è dimostrato non solo dalla notissima paternità della DARPA americana (agenzia del Pentagono incaricata di sviluppo di nuove tecnologie) sul World Wide Web ma anche dal meno noto (ma forse più importante nel nostro caso) contributo della nostra Marina Militare (storicamente la più influente tra le Forze Armate in politica industriale per via di una vocazione marittima italiana spesso obliata8) allo sviluppo delle telecomunicazioni nella penisola9.

Il caso italiano

La storia delle infrastrutture di rete in Italia ricalca in gran parte quella della nostra politica industriale, del rapporto tra Stato e settore produttivo orientato a fini di crescita, competitività, sicurezza e interesse nazionale. È una storia oscillante in più dimensioni che si influenzano reciprocamente: tra congiunture internazionali favorevoli o meno, una classe politica di lungimiranza altalenante e un settore produttivo a tratti vivace e altre volte confuso. 

Se l’economia mista degli anni del boom era un lampante esempio di una stretta sinergia tra strategie pubbliche e private10, le complicazioni degli ultimi vent’anni hanno visto un rapporto tra Stato e imprese piuttosto sbiadito, sia per quanto riguarda la difesa dell’interesse nazionale, sia per quanto riguarda la promozione di un sistema produttivo all’avanguardia. L’Italia degli anni Novanta, strozzata da una crisi sistemica che andava ben oltre quella dei partiti, non riuscì a rialzarsi con le politiche figlie degli orientamenti politico-economici del tempo11 che non riuscirono a risanare il debito ma resero il sistema industriale solamente più fragile. Già nel 200312 Luciano Gallino constatava lo scenario disastroso in cui si trovava il tessuto produttivo del paese: cali di produttività, una grande impresa manifatturiera svenduta all’estero (se non parcellizzata in un sistema di PMI che non sono riuscite a cavalcare l’onda dell’economia della conoscenza come ci si aspettava)13 e un deludente declino degli investimenti in ricerca e sviluppo. Le telecomunicazioni sono un esempio lampante di questa decadenza. 

Dopo la fase iniziale di cablaggio della penisola sotto l’occhio vigile delle concessioni statali14, le società incaricate di gestione della rete e dell’offerta di servizi si collocarono, per un lungo periodo del dopoguerra, in posizioni di eccellenza a livello europeo e globale, arrivando a sfidare i colossi tecnologici giapponesi15. Negli anni ’90 del Novecento tali società furono in larga parte privatizzate e liberalizzate: Telecom Italia, società unica nata nel 1994 dall’incorporazione di SIP e STET, fu lanciata nel 1997 a Piazza Affari cercando di conservare un azionariato (un “nocciolo duro”) che potesse garantire la stabilità della società. Tuttavia, nei fatti, ciò risultò in appena un 6,7% firmato Agnelli (più un “nocciolino” quindi, come ricorda Alessandro Aresu16). La posizione di una società ereditaria di un profilo d’avanguardia mondiale in campo tecnologico ne uscì notevolmente peggiorata. 

La competizione infrastrutturale attesa che avrebbe dovuto galvanizzare la copertura in fibra non ci fu, e Telecom rimase un monopolista della rete di cavi in rame (con tutte le problematiche concorrenziali annesse) con incentivi bassissimi ad investire sulla fibra. Nemmeno l’impulso positivo registrato con l’avvento di Open Fiber, proprietaria di Enel e Cassa Depositi e Prestiti e nata in seno al Piano Banda Ultra Larga del 2015 (che prevede importanti investimenti pubblici), ha contribuito alla creazione di una competizione infrastrutturale benefica per il sistema-paese. I problemi non si sono risolti con l’avvento delle TLC mobili, ancora non considerate servizio essenziale tale da giustificare un intervento statale. L’analisi svolta sul settore da Franco Bassanini17 ( Presidente di Open Fiber) dipinge un quadro confuso, soprattutto davanti all’insorgere di tecnologie come il 5G, necessarie per le esigenze della nuova rivoluzione digitale e per cui la copertura infrastrutturale resta carente. 

Uno sguardo al futuro

In sostanza, la compenetrazione tra Stato e settore produttivo, che attraverso concessioni e partecipazioni statali aveva garantito la realizzazione delle prime reti TLC, non c’è stata per la fibra e le reti mobili. Inoltre, le infrastrutture delle telecomunicazioni create nel dopoguerra non rimasero di proprietà statale come strade, ferrovie o reti elettriche, ma furono lasciate a privati in un ambiente d’impresa non favorevole a sviluppo e innovazione. Come ricorda ancora Bassanini, “c’è da chiedersi se mercato e concorrenza rappresentino strumenti sufficienti per garantire i risultati attesi”, ovvero quell’assortimento di obiettivi a cui una rete di telecomunicazioni efficiente mira, comprese la sicurezza nazionale e la coesione sociale. Per il futuro, appare in questo senso necessaria una soluzione di concertazione da parte del settore pubblico, mirata a creare un’infrastruttura unica non verticalmente integrata (ovvero di distinzione tra gestore della rete e erogatore di servizi) che possa assicurare competitività e tutelare la cybersecurity al tempo stesso. 

Meriti e colpe non sono mai monocausali. Come citato in precedenza, al successo o alla decadenza dell’industria italiana concorrono in un rapporto dialettico classe politica, attitudine manageriale e contesto internazionale. Se da quest’ultimo punto di vista nell’Unione Europea la visione della politica industriale, davanti alle sfide tecnologiche sinostatunitensi, sembra voler trascendere il classico orientamento di tutela della concorrenza e del consumatore aprendo alla necessità di investimenti strategici nel settore delle telecomunicazioni18, settore pubblico e privato italiano devono ritrovare l’intesa di un tempo. Il primo deve uscire dalla spirale autoaccusatoria coniugata nel vincolo esterno (non siamo capaci, facciamoci commissariare), riscoprire il valore aggiunto del suo intervento e constatare l’importanza di elaborare una cultura strategica. Ciò vuol dire coltivare la volontà di pesare nel gioco globale sfruttando potenzialità e leve che non vanno create ex-novo, ma di cui il Paese già dispone (in Sicilia, per esempio, passa gran parte del traffico voce e dati diretto dal Mediterraneo in America19). In tal senso, l’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti in TIM e l’attivazione dei poteri speciali (c.d. golden power20) a seguito della partecipazione del gruppo francese Vivendi nella stessa società sono due, seppur molto timidi, esempi di movimento in tal senso. Il settore produttivo, egualmente, deve ritrovare lo spirito imprenditoriale che a lungo ha saputo dimostrare, quell’èthos capitalistico votato all’innovazione e alla lungimiranza, ignorando quello votato alla sventatezza o alla mera distribuzione di maggiori utili in breve tempo, che recentissimi casi di cronaca ci hanno tristemente ricordato21. C’è da fare una precisazione alla frase di Pavese citata a inizio articolo: non tutti i miti sono inconsce fughe dalla realtà, processo per cui si rischia di esserne travolti. Chi invece evoca scientemente il mito non ha “nulla in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri”22. Al contrario, sceglie di farlo conferendo ad “un midollo di realtà” (strettamente materiale) uno slancio espressivo che lo legittimi, gli faccia acquisire un senso, lo rafforzi.

Ecco, riacquistando le capacità citate,  l’Italia può evitare di scivolare in colonia industriale, di mancare all’appello dell’innovazione. Può scegliere di perseguire il mito della connettività come motore significante dell’innovazione. Governarlo, invece di farcisi travolgere.


Bibliografia

1 Pavese, C. (1947). Dialoghi con Leucò. Einaudi.
2 Lo spot, lungo un minuto, è reperibile su YouTube all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=55-WJKnHk_o
3  Fabbri, D. (2018). Per una geopolitica umana applicata ai dati in Limes, Rivista italiana di geopolitica n. 10/2018.
4  Si veda a tal proposito la voce di Wikipedia “Infrastrutture”
5 Baricco, A. (2004). Omero, Iliade. Feltrinelli
6 http://gnosis.aisi.gov.it/gnosis/Rivista16.nsf/ServNavig/17
7  Aresu, A. (2020). La consolante favola del primato tecnologico e della connettività in Limes, rivista italiana di geopolitica n.2/2020
8 Per approfondimenti in tal senso è edificante l’ultimo numero di Limes, rivista italiana di geopolitica n.10/2020 “L’Italia è il mare”
9 Carulli, V. et al. (2011) Il contributo della Marina Militare Italiana allo sviluppo delle radiocomunicazioni in Cantoni. V. et. al. Storia delle telecomunicazioni. Firenze University Press
10 Ciocca, P. (2014) L’IRI nell’economia italiana in Storia dell’Iri, vol. 6. Laterza
11 Orientamenti di cui le norme comunitarie dall’Atto Unico Europeo all’accordo Andreatta-Van Miert sono solo alcuni dei tanti esempi
12 Gallino, L. (2003). La scomparsa dell’Italia industriale. Einaudi
13 Pagano, U. (2019). Proprietà e controllo delle grandi imprese: Un’interpretazione del resistibile declino italiano in Quaderni del dipartimento di Economia Politica e Statistica n. 789. Università di Siena
14 Caroppo, A. e Gamerro, R. (2011) Le infrastrutture delle telecomunicazioni in Cantoni. V. et. al. op. cit.
15 Randi, S. (2011) Successi e decadenza delle industrie delle telecomunicazioni in Cantoni. V. et. al. op.cit.
16  Aresu, A. (2018). Per una biografia geopolitica di Telecom in Limes, rivista italiana di geopolitica n.10/2018
17  F. Bassanini (2019).  Le TLC in Italia, fra competizione infrastrutturale e infrastruttura unica. Astrid Rassegna n.17/2019
18 A tal proposito, un esempio è il Codice Europeo delle Comunicazioni Elettroniche approvato da Consiglio e Parlamento a novembre 2018. Disponibile su: https://data.consilium.europa.eu/doc/document/PE-52-2018-INIT/it/pdf
19 F. Colarieti (2017). “Perché Telecom Italia Sparkle è strategica? Chiedetelo a Edward Snowden”, Formiche
20 Si rimanda a tal proposito, sempre su AWARE, all’articolo “Il Golden Power: lo scudo statale attivato dal governo a protezione delle nostre aziende strategiche” di Edoardo Crivellaro 
21  Il caso di Autostrade è ( Autostrade, l’ad di Edizioni Holding Gianni Mion: “Le manutenzioni? Più passava il tempo meno facevamo. Così distribuiamo più utili e Gilberto e tutta la famiglia erano contenti”, Il Fatto Quotidiano, Giovanna Trinchella ) è solo uno dei tanti esempi
22 C. Pavese. (1947). Op. cit.

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