Economia

Il debito pubblico: nasce, cresce e…

Il debito pubblico dal 2007, anno della prima crisi finanziaria globale del XXI secolo, ad oggi, ha rappresentato uno dei temi di dibattito più caldi nel mondo ed in Italia. Inoltre il 23 e 24 aprile si terrà a Parigi un Forum globale sulla gestione del debito pubblico organizzato dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), dunque con questo articolo cerchiamo di fare chiarezza su cosa sia, la sua stretta correlazione con deficit e titoli di Stato, cercando di rispondere a dubbi e domande che ci sorgono quando vengono trattati questi temi.

Innanzitutto, il debito pubblico può essere definito come il debito che uno Stato ha accumulato negli anni verso gli operatori economici con cui si confronta: i cittadini, le imprese, le banche e la banca centrale. Dunque, lo Stato può essere considerato , ad esempio, come un individuo che chiede un prestito ad una banca; questo dovrà essere restituito in un determinato momento nel futuro con i relativi interessi aggiunti.

Per analizzare il debito pubblico bisogna conoscere la sua relazione con il deficit pubblico. Esso rappresenta la differenza negativa tra entrate e spese di uno Stato in un determinato anno, che si somma a quello accumulato negli anni precedenti e successivi, andando a formare così il debito pubblico.  

Facendo un esempio: se un paese nel 2016 ha speso 70 e ha ricavato 30 avrà un deficit pari a 40; se nel 2017 ha speso 120 e ha ricavato 70 avrà un deficit di 50; nel 2018, ipotizzando che fino al 2016 il debito fosse 0, avrà debiti per un ammontare di 90 (40 nel 2016 + 50 nel 2017).

Se il calcolo viene effettuato partendo dall’anno in cui lo Stato si è formato, si otterrebbe la cifra del debito pubblico attuale.

Ovviamente uno stato non realizza annualmente risultati deficitari, ma possono esserci situazioni di pareggio o di surplus nella differenza tra entrate e uscite.

Il deficit, e quindi il debito, sono la conseguenza della politica di spesa pubblica, cioè programmi di spesa che lo Stato deve attuare per sostenere la realizzazione di opere pubbliche, per il funzionamento del Servizio sanitario nazionale, per pagare pensioni, stipendi ai dipendenti pubblici, per ripagare il valore e gli interessi dei titoli di Stato.

Questi ultimi sono lo strumento principale che lo Stato utilizza per chiedere prestiti al fine di finanziare le politiche da attuare, dato che l’ammontare di denaro che entra nelle casse dello Stato, grazie alla tassazione, risulta insufficiente a coprire la spesa pubblica.

Bisogna precisare che la monetizzazione, ossia stampare moneta al fine di ripagare il debito pubblico, è ritenuta una pratica illegale. Il motivo riguarda le conseguenze disastrose che questa pratica avrebbe sull’economia del paese nel lungo periodo (pericolo di iper-inflazione).

I titoli di Stato sono titoli di credito, di diverse tipologie (in Italia: BTP, BOT, CTZ, ecc.; in Germania il più conosciuto è il BUND), che lo Stato emette permettendone l’acquisto sul MOT (Mercato telematico delle obbligazioni) ai soggetti interessati.

L’acquisto dei titoli emessi obbliga lo Stato a rimborsare il loro valore alla scadenza (cioè a restituire la cifra che gli è stata prestata) con l’aggiunta degli interessi. In questo modo la spesa totale (il valore dei titoli più gli interessi), che lo stato dovrà sostenere, andrà ad aumentare proporzionalmente l’ammontare di debito pubblico.

Riprendendo l’esempio di prima, possiamo osservare come il deficit del 2017 pari a 50 comprenda parte della spesa pubblica non reintegrata dalle entrate; una parte di questa è composta dalla spesa sostenuta per il rimborso del valore e degli interessi dovuti sui titoli, i quali erano stati emessi per sostenere il debito creato dal deficit (pari a 40) formatosi nell’anno precedente.

Con riguardo al nostro paese vi è una peculiarità che non tutti conoscono: dal 1992 al 2017 si sono registrati valori del saldo primario (la differenza tra entrate e uscite non considerando la spesa per gli interessi sui titoli di stato) costantemente positivi, l’unico caso in Europa a far registrare questi risultati (come riportano i dati di Banca d’Italia e ISTAT). Ciò significa che lo Stato ricava più di quanto spende, ma aggiungendo il costo degli interessi allora le cose cambiano: lo Stato italiano registra una differenza costantemente negativa, che va ad incrementare, come sappiamo, il livello di debito pubblico.

In conclusione, semplificando, se l’Italia potesse non pagare gli interessi sui titoli di stato si potrebbe parlare meno di debito pubblico e si avrebbe la possibilità di aumentare la spesa pubblica o di diminuire la pressione fiscale, o, perché no, di attuare entrambe.