L’inizio della nuova decade non si sta certamente rivelando pacifico. Se a dominare le cronache a gennaio è stato il rischio, peraltro tuttora vivo, di escalation militare tra Iran e USA, e se febbraio ha segnato l’inizio della lotta in campo sanitario contro COVID-19 in Occidente, al mese di marzo sembra essere toccato uno scontro di carattere economico.
Il 9 marzo scorso, infatti, con una mossa che ha sorpreso analisti e addetti ai lavori, l’Arabia Saudita dava inizio ad una feroce battaglia sul prezzo del greggio. In un momento storico di forte (ed imprevisto) calo della domanda nel mercato degli idrocarburi, dovuto principalmente alla pandemia corrente, Saudi Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi, inondava di petrolio il mercato, facendo crollare del 30% il prezzo del greggio in un solo giorno. Le conseguenze a breve termine di una simile mossa sono state fulminanti, ed in un attimo si sono propagate ai mercati finanziari, già sotto stress per le conseguenze del coronavirus sulle economie internazionali. Se protratta sul lungo periodo, questa guerra commerciale potrebbe però dimostrarsi un ben più tremendo propulsore di instabilità politica e socio-economica per tutte le economie tradizionalmente fondate sulle esportazioni di idrocarburi, tra cui la stessa Arabia Saudita.
A fronte di un tale scenario, si rende necessario capire le ragioni di una strategia saudita tanto rischiosa ed apparentemente controproducente.
Per farlo, e per individuare le implicazioni delle tensioni correnti, AWARE ha avuto il piacere di confrontarsi con Lorenzo Colantoni, ricercatore specializzato in Cambiamento climatico, Energia e Risorse naturali presso lo IAI (Istituto Affari Internazionali) di Roma.
Il settore petrolifero, Opec+ e la shale oil industry
Come punto di partenza per ogni buona analisi, vanno identificati gli attori in gioco.
Sin dagli anni ’60, la supply internazionale in campo petrolifero è stata dominata da OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries), un’organizzazione intergovernativa permanente di Paesi esportatori di greggio che, in maniera non dissimile da un grande cartello internazionale, ha sempre lavorato di concerto per gestire i volumi ed i prezzi del petrolio sui mercati internazionali. Oggi, i paesi facenti parte di OPEC sono Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Venezuela, Libia, Emirati Arabi Uniti, Nigeria, Angola, Gabon, Guinea e Congo.
Dal 2016, la Federazione Russa ha stretto i rapporti con Arabia Saudita in primis, e con le politiche commerciali dell’intera OPEC, dando vita ad un’alleanza etichettata come “OPEC+”. Quello stesso anno si stimava che il gruppo controllasse il 40% delle esportazioni mondiali di greggio.
Tuttavia, a partire dal 2014 in particolare, le dinamiche dell’industria petrolifera internazionale sono state fortemente impattate dal boom della cosiddetta shale oil industry statunitense. In un contesto caratterizzato da prezzi al barile piuttosto alti e tendenzialmente stabili, i grandi investimenti in questa tecnica di estrazione non convenzionale da parte delle compagnie petrolifere americane hanno permesso agli USA di raddoppiare la produzione domestica di greggio, passando da un output quotidiano di 5,7 milioni di barili nel 2011 ad 11,6 milioni di barili nel 2018. Oggi, gli USA si attestano come i più grandi produttori di petrolio al mondo.
Evidentemente, un simile picco nella produzione internazionale si è tradotto in un incremento della competizione tra Paesi esportatori ed in un’erosione del market share combinato russo e saudita, sceso del 3% dal 2016, a fronte di un incremento statunitense pari al 4%.
Il ritiro russo, la ritorsione saudita
È a partire da questa situazione competitiva che i fatti degli ultimi giorni vanno inquadrati. Il 9 marzo scorso, Mosca rifiutava l’iniziativa saudita di procedere ad un taglio addizionale di 1,5 milioni di barili al giorno ad opera del gruppo OPEC+, da aggiungersi ai già esistenti tagli pari a 2,1 milioni di barili al giorno precedentemente approvati per sostenere il prezzo del petrolio, diminuito di un terzo rispetto a gennaio 2020. Alla base della scelta del presidente Putin, la pressione delle compagnie petrolifere domestiche, prima tra tutte Rosneft, che il giorno precedente aveva dichiarato come eventuali nuovi tagli alla produzione fossero contrari agli interessi nazionali, a fronte dell’intensificata competizione da parte degli shale producers statunitensi.
In risposta alla decisione russa di sganciarsi dalle politiche OPEC per tentare di mantenere ed espandere la propria fetta di mercato, i Sauditi il 9 marzo stesso decidevano di aprire i rubinetti del greggio, inondando il mercato di offerta, e vendendo con sconti di listino tali da far precipitare il benchmark Brent crude del 30%, da circa 45$/b fino a poco più di 30$/b, il più imponente crollo dalla prima Guerra del Golfo, nel 1991.
Una risposta drastica, con ripercussioni immediate sul valore delle valute dei Paesi produttori, e volta ad asserire una volta di più la posizione dominante della Monarchia sulla produzione petrolifera mondiale e ad intimorire gli alleati circa le conseguenze di eventuali atti di insubordinazione. Oltre che drastica, una risposta che comporta anche enormi rischi per tutti gli attori in causa, in particolare per le economie nazionali tradizionalmente basate sulle esportazioni di petrolio, a partire dall’Arabia Saudita stessa.
Infatti, il corrente prezzo del greggio risulta essere al di sotto del breakeven point di chiunque nel settore: se tali condizioni dovessero protrarsi nel tempo, numerosi Stati OPEC, ma non soltanto, potrebbero trovarsi a fronteggiare forti budget deficits ed essere costretti ad attingere a riserve di valuta estera, ad indebitarsi, e ad operare dolorosi tagli ai servizi pubblici. In poche parole, se i Russi non dovessero chinare la testa nel breve periodo, i Sauditi rischierebbero di mettere in forte stress ed alienarsi i propri alleati, nonché di esporsi a propria volta a forti fragilità.
Considerati questi presupposti, e assodata la propensione al rischio di Mohammad bin Salman, principe ereditario saudita e detentore de facto del potere a Riyad, gli analisti si pongono però una considerazione importante: è effettivamente a unico danno della Russia che la Monarchia ha indirizzato la propria mossa?
L’economia russa
Senza ombra di dubbio, il crollo del prezzo del petrolio si è fatto sentire anche a Mosca. Quello stesso giorno, il prezzo delle azioni Rosneft è crollato del 22%, le shares Gazprom hanno perso il 18% del loro valore di mercato. A fine giornata, il rublo aveva perso il 10% del suo valore rispetto al dollaro, situazione parzialmente risolta due giorni dopo grazie alla vendita di valuta straniera ad opera della banca centrale russa. Ciò nonostante, Mosca non ha indietreggiato di un centimetro, spingendosi anzi a dichiarare di avere i mezzi per poter sopportare un prezzo tra i $25 ed i $30 al barile per un periodo compreso tra i 6 ed i 10 anni. Pur ritenendo la stima eccessivamente ottimista, e ridimensionando le capacità di sopportazione russe a non più di tre anni, enti super partes come l’Oxford Institute for Energy Studies avallano la credibilità della dichiarazione.
Dal 2015 la Federazione Russa ha intrapreso un percorso di ristrutturazione economica che l’ha certamente resa più stabile e resiliente. Oggi gli idrocarburi contano ancora per il 40% degli introiti statali, tuttavia attualmente il Paese può contare su $570bn in riserve di valuta estera, a fronte dei $502bn Sauditi. $150bn di tali riserve sono racchiusi in un Wealth Fund nazionale, finanziato con surplus legati alle esportazioni di gas e petrolio a partire dal 2017: è a queste risorse in particolare che il ministro dell’energia, Novak, sostiene di poter attingere per supportare per anni l’industria petrolifera, qualora i prezzi dovessero mantenersi al livello corrente o più bassi.
Inoltre, va sottolineato come in un decennio i Russi siano riusciti ad abbassare di quasi il 60% il Breakeven oil price necessario a raggiungere il pareggio di bilancio: da circa $100 al barile, si attesta oggi a $42 a barile, un prezzo oltremodo competitivo.
A ben guardare, la Federazione Russa oggi sembra avere una delle economie meno dipendenti dal greggio tra quelle prese in considerazione, e pare addirittura meglio equipaggiata della stessa Arabia Saudita per affrontare una guerra di prezzo di medio o lungo periodo. Perché Riyad dovrebbe attaccare da una posizione di possibile svantaggio? E se Russi e Sauditi avessero degli interessi comuni in questo confronto? Chi ha davvero più da perdere in questo contesto? La risposta offerta dagli addetti al settore è stata netta: gli shale producers americani.
La shale oil industry USA
Le procedure estrattive non convenzionali, quali quelle relative allo shale oil, risultano ad oggi molto più dispendiose di quelle tradizionali: non a caso, hanno visto la loro massima diffusione in un periodo storico di prezzi del petrolio sostenuti e stabili. Già durante il 2019, le preoccupazioni circa questo tipo di settore avevano cominciato a farsi più pressanti, sia in termini di impatto ambientale delle tecniche impiegate, sia per quanto riguarda l’effettiva profittabilità del settore e l’elevata esposizione al debito di buona parte delle società operanti in questo campo. Secondo quanto riporta il Financial Times, le società legate all’industria energetica oggi contano per oltre il 10% del mercato obbligazionario ad alto rendimento statunitense (vale a dire il mercato dei titoli di debito ad alto rischio di insolvenza, o junk bonds). Ad un prezzo compreso tra i $30 ed i $35 al barile, la vasta maggioranza degli attori nella shale industry USA risulta in perdita, ed il mercato finanziario statunitense ne è pienamente consapevole.
Il 9 marzo scorso, società come SM Energy, Callon Petroleum ed Oasis Petroleum hanno visto il prezzo dei propri titoli di debito perdere quote comprese tra il 40% ed il 50% del loro prezzo nominale sul mercato secondario. Aziende consolidate come Occidental a loro volta hanno visto perdere il 20% al valore di titoli obbligazionari con maturità nel 2029. Fondi come Lord Abbett, fortemente esposti in questo mercato, hanno visto gran parte dei ricavi di quest’anno cancellati in un solo giorno.
L’accresciuto scetticismo da parte degli investitori circa la competitività degli shale producers renderà crescentemente onerose le possibilità di rifinanziamento di questi ultimi nell’immediato futuro.
Se i prezzi del greggio dovessero rimanere bassi a lungo, gli shale producers potrebbero essere spazzati via, a giovamento dei produttori tradizionali, con Russia e Arabia Saudita in prima fila.
L’opinione di un addetto al settore: il Dott. Colantoni
Onde evitare di addentrarci in un mare di speculazioni senza una bussola, abbiamo deciso di rivolgerci all’esperienza in materia di Lorenzo Colantoni, da lungo tempo ricercatore in IAI sul settore energetico e la geopolitica delle transizioni energetiche, che cortesemente ha acconsentito a farci da “Cicerone”.
Dottor Colantoni, cosa ne pensa della teoria dell’ape che ronza nell’orecchio del toro? È possibile che la Russia abbia voluto provocare la reazione dei Sauditi proprio per sfavorire gli shale producers?
Effettivamente, non è una possibilità da escludersi. Se, ufficialmente, lo scontro vede contrapporsi Arabia Saudita e Federazione Russa, è evidente che le conseguenze della disputa si ripercuotano anche su attori terzi, quali statunitensi e Paesi OPEC. Per come è strutturata l’economia russa, i perdenti in questo tipo di dinamica sono in primo luogo i nordamericani. Considerato che le compagnie russe non dispongono dei volumi necessari per far crollare il prezzo del greggio, potrebbero effettivamente aver fatto scattare volontariamente “l’opzione nucleare” saudita, che invece ha a disposizione tutto il necessario. Ciò non toglie che si tratterebbe comunque di un grosso azzardo anche per i Russi, che sono sì più stabili di un tempo, ma non per questo immuni.
A proposito della stabilità economica russa, pensa che il Paese possa effettivamente uscire indenne da uno scontro simile, se protratto nel tempo? Ad uscirne intaccate sarebbero solo le rendite petrolifere, o si prevedono effetti anche sul mercato del gas?
Per rispondere alla domanda, è importante partire sottolineando che l’interscambiabilità tra petrolio e gas è molto limitata. Tuttavia, storicamente il prezzo del gas è stato spesso indicizzato a quello del petrolio, specialmente dai Russi. Oggi tale tendenza si è molto indebolita, tanto da non doversi preoccupare particolarmente per possibili assestamenti nel mercato del gas. Ciò nonostante, va sottolineato che l’economia russa può dirsi in crisi latente da qualche anno, è fragile e meno diversificata di quanto la si voglia far apparire.
E che opinione ha circa le capacità saudite di reggere il confronto?
Certamente la Monarchia deve aver valutato le proprie opzioni. Oggi, ha il coltello dalla parte del manico, può gestire i rubinetti del greggio come meglio crede, ed in qualsiasi momento. Certo è che il grado di diversificazione saudita è tuttora molto limitato: quando il prezzo al barile scese a $25, si cominciò a temere di dover introdurre misure di austerity nel Paese, opzione che pareva fuori dal mondo nel Golfo. Va sottolineato però che la debolezza di Riyad non sta tanto nei costi di estrazione, quanto nel prezzo necessario alla Monarchia per raggiungere la parità di bilancio, oggi stimato intorno ai $50, $60 dollari al barile.
Un simile crollo nei prezzi del greggio, unito al rallentamento economico globale indotto da COVID-19, può rappresentare una battuta d’arresto per le transizioni green?
La risposta è un deciso no. Storicamente è stato provato come non ci sia una correlazione negativa tra basso prezzo del petrolio e transizioni ad economie sostenibili, anzi, si può dire che un prezzo basso del greggio può essere driver di rinnovato interesse in fonti alternative.
Infatti, un prezzo sostenuto del petrolio attira investimenti produttivi. Al contrario, quando il prezzo cala o diventa pericolosamente instabile, gli investitori tendono a dirottare i propri fondi su fonti alternative, non toccate dalla volatilità del momento.
Oggi, in cui la generazione trainante è quella elettrica, la correlazione col prezzo del petrolio è piuttosto bassa: è difficile che tu ti trovi a dover scegliere tra la luce in casa e la benzina per la macchina, al massimo la scelta è relegata ad ambiti minori, quali la scelta dei mezzi di trasporto privati.
Va comunque sottolineato che il consumatore in genere vede gli effetti di un crollo nel prezzo del petrolio dopo mesi eventualmente, e che oggi la mobilità elettrica è ancora molto limitata.
Concludo dicendo che in una situazione come quella odierna, di crollo temporaneo di prezzo e fluttuazione, il consumatore perde visione e previsione, e non si fida di investire sul petrolio.
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