Economia

Global Value Chains e analisi del rischio: riflessioni sul futuro della globalizzazione

Sin dai primi contagi in Lombardia, una fetta sostanziosa dell’opinione pubblica occidentale ha fatto presto a sentenziare sul presunto colpevole della diffusione del Covid19 nelle nostre case: la globalizzazione.
Prima di proseguire mi preme operare un chiarimento di natura concettuale. Il complesso fenomeno della globalizzazione non è, e non può essere, riducibile alla mera integrazione dei mercati avvenuta negli ultimi 25 anni: questo è infatti in corso da tempo immemore. La globalizzazione è molto di più e, seppure sia innegabile che quest’ultima abbia contribuito alla diffusione tanto rapida del virus che sta sconvolgendo le nostre vite nelle ultime settimane, è altresì vero che ne favorisce la cura tramite la diffusione di dati, materiale sanitario, conoscenze e competenze. Quella del coronavirus è, quindi, una crisi globale e solo in parte una crisi della globalizzazione. Che lezioni si possono trarre dallo status quo?

Ripensare le Global Value Chains

Caratteristica fondamentale della produzione contemporanea è la frammentazione dei singoli processi produttivi in un ampio network di paesi ed imprese apparentemente privo di confini: la realizzazione di un prodotto non dipende più, infatti, da una sola industria in un solo paese, ma coinvolge un gruppo molto più vasto di attori che ha portato alla specializzazione della produzione non secondo le linee del bene finito realizzato, ma secondo quelle dello stadio di realizzazione di quel prodotto. Questi fenomeni sono noti come Global Value Chains (GVCs), letteralmente catene della produzione globale, che già prima del Covid19 erano al centro di numerose discussioni incentrate sul ripensamento della globalizzazione.
A detta di molti questo sistema sarebbe reo di aver allontanato la produzione dai paesi occidentali a favore di paesi emergenti, principalmente localizzati nell’estremo oriente (Cina inclusa), e delle conseguenze di tali scelte: perdita di posti di lavoro e la messa in moto un sistema logistico insostenibile dal punto di vista ambientale. Queste critiche, per quanto fondate, descrivono il fenomeno in maniera parziale. Se è vero, infatti, che le realtà socioeconomiche europee e statunitensi sono state stravolte negli ultimi decenni, è vero anche che la globalizzazione ha contribuito a sollevare quasi un miliardo di persone dallo stato di povertà e che il sistema stesso della GVCs impiega circa 450 milioni di individui.
Due sono i principali anelli deboli di queste catene, oggetto di profonde valutazioni già prima della diffusione del Covid19: la differenziazione delle aree di rifornimento, e il modello di produzione just-in-time.

La fabbrica del mondo

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Wuhan, oltre ad essere l’epicentro del virus che sta stravolgendo i nostri stili di vita, è un importante centro economico, nazionale e mondiale, posizionato al centro di molte Global Value Chains. Si tratta di un grande polo finanziario, meccanico, manifatturiero e farmaceutico. Oltre alle ben note conseguenze sanitarie che la diffusione del virus ha generato, sono state pesanti, sin da subito, le ripercussioni per le industrie estere che dipendono dai prodotti intermedi importanti proprio dalla regione dell’Hubei. Anche nell’ipotesi in cui il virus non si fosse diffuso a macchia d’olio in Europa, Nord America e nel resto dell’Asia, quindi, le conseguenze economiche sarebbero state comunque pesanti per queste economie. Una volta scacciato il “cigno nero”, termine utilizzato per riferirsi a shock esogeni imprevedibili, sarà importante adattare le proprie catene della produzione rendendole più malleabili e meno sensibili ai rischi. Un tale obiettivo è raggiungibile percorrendo più strade; ma le più sicure sembrano essere quella della differenziazione dei paesi di provenienza o quella, meno probabile, dell’in-shoring, ovvero riportare la produzione interamente in un solo paese. Politicamente sarà importante ridurre la propria dipendenza da un solo partner, a favore di reti più estese e sicure. La seguente figura fornisce un’idea dell’elevatissima dipendenza delle principali potenze industriali manifatturiere dalla Cina.

“We’re not ready”

Il sopramenzionato modello di produzione just-in-time è la seconda area dove gli esperti individuano i principali margini d’intervento per imprese e apparati statali. La necessità di rivedere le proprie voci di spesa in favore di maggiori interventi preventivi per emergenze che potrebbero, o meno, verificarsi non riguarda solamente le realtà produttive private, ma anche i governi.
In questi giorni di crisi pandemica ha guadagnato visibilità una conferenza (TedTalk), tenuta da Bill Gates nel 2015 dal titolo “The next outbreak? We’re not ready”, durante la quale il fondatore di Microsoft esponeva le proprie considerazioni su una possibile futura crisi sanitaria e sulle conseguenze economiche di quest’ultima. Non si tratta di una previsione, ma piuttosto di un’attenta osservazione. Quella del Covid19 non è, infatti, la prima crisi sanitaria ad esplodere negli ultimi 20 anni, basti pensare (tra le altre) ad Ebola, Ziki e Sars. Secondo Bill Gates già in queste occasioni l’inadeguatezza dei nostri sistemi di gestione delle emergenze è risultata evidente, e che nessuno di questi virus abbia raggiunto le capacità di diffusione dell’odierno Covid19 è solo questione di fortuna, soprattutto considerando i tassi di mortalità delle altre patologie.
Il modello di Global Value Chain just-in-time prevede la spedizione di un determinato materiale o prodotto intermedio giusto in tempo per il suo utilizzo per la realizzazione del bene finale, riducendo quindi di molto il peso degli stock. Si tratta di un sistema chiaramente efficiente dal punto di vista economico, ma che comporta un alto livello di rischio necessitando che ogni ingranaggio del meccanismo funzioni alla perfezione. Non è necessario l’arrivo di un virus per far saltare questo sistema, basti pensare alle molteplici tragedie avvenute in Giappone nel 2011 (terremoto, maremoto e disastro nucleare) e alle conseguenze sulla produzione mondiale nel settore automobilistico.
Beata Javorcik, chief economist della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, si è recentemente espressa sul tema in un’intervista al Financial Times. Secondo la guida scientifica della BERS lo shock che l’epidemia da Coronavirus rappresenta per il sistema di Global Value Chains non sarà temporaneo come quello giapponese di quasi dieci anni fa. Il cambiamento climatico e la crisi commerciale degli ultimi anni, infatti, secondo la Javorcik avevano già contribuito ad un ripensamento dei sistemi di produzione mondiale e il Covid19 potrebbe essere il passo definitivo verso una nuova direzione.

I primi effetti sul commercio internazionale

Non ancora ufficialmente iniziata la ricostruzione post-pandemia, alcuni importanti segnali sono già riscontrabili. Il Giappone, ad esempio, sta valutando nuovi possibili partner asiatici da includere nel progetto TPP (Trans Pacific Partnership), accordo di libero scambio tra paesi che affacciano su entrambe le coste del pacifico, al fine di ridurre la propria dipendenza dal gigante cinese. Il Messico e il Canada, invece si dichiarano pronti a far entrare in funzione il nuovo accordo di libero scambio nord americano (USMCA) che sostituirà l’ormai defunto NAFTA, e persino a Washington sembrerebbe essere sotto esame l’ipotesi di una tregua totale con Pechino. Tuttavia, mentre svariati attori dello scacchiere politico internazionale promuovono nuove iniziative di integrazione regionale, paradossalmente l’Unione Europea, modello per eccellenza dal dopo guerra in poi di cooperazione continentale, soffre le minacce interne mosse da esponenti politici e di governo.

La globalizzazione non è un processo reversibile, bensì gestibile. Non si tratta necessariamente di un fenomeno positivo o negativo ed è presto per parlare di picco o di de-globalizzazione. Nonostante questi segnali, infatti, la corrente crisi ha dimostrato l’importanza di organismi sovranazionali per la gestione di shock senza confini.

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